martedì 27 dicembre 2011

Per un pugno di neve


Vado per migrazione contraria,
mi trascino fuori dall’inverno con l’ala incagliata nell’ultima estate,
annodo le piume allo scarto del fieno, alla paglia bruciata dal sole. 
E’ la stagione esaurita, il gancio che mi tira,
quell’Agosto di fuoco spento e cenere sbriciolata sulla riva. 
Sono le conchiglie frantumate, le corde che m’imbragano il volo,
la cozza rotta contro lo scoglio, il mollusco aperto al vento. 
Tutti muovono a terraferma, baraccati sopra la neve fresca, forti di scarponi nuovi, a contendersi il metro quadro di un bianco intatto.
Io sollevo i piedi, buttata all’indietro m’allargo al disuso del mare. 
Sia pure alga nella testa e petrolio nel respiro, 
sopra o sotto l’acqua io continuo a volare.
Non ci resto impalata al suolo, stanca di guerra per un pugno di neve.

domenica 18 dicembre 2011

Chi alla vita sviene.


Maceriamo negli impegni, siamo ciliegie sotto spirito,
il grado alcolico del fare ci manda in nebbia gli occhi, svapora la vista e disperde la ragione.
Chiusi nei nostri barattoli, poggiamo sul fondo spesso di un’agenda piena,
il sughero del prossimo appuntamento è tappo che ci separa dal cielo.
Poco importa se la stella polare fugge a sud e il mondo si trova col sangue alla testa,
basta che la circolazione dei giorni segua il flusso degli affari,
la geometria di un barattolo pronto a farci merce da mercato.
Sul banco della fiera verremo esposti alla destra della mostarda, alla sinistra del cotechino. 
Noi, sopra il fieno degli acquisti, sotto la capanna dei consumi.
Al centro pieno della notte santa.
Fieri di esserci guadagnati il posto del Bambino Gesù, 
con un corpo di ciliegia sbronza,
e il coma etilico di chi alla vita sviene.

lunedì 12 dicembre 2011

La tappezzeria di una stanza

E’ carta da parati, questo mio corpo attaccato al muro, 
fiore straccio che cerca colla a ricomporsi, spiegato e intero sul cemento. 
Mi penzola la testa, senza l’adesivo di uno sguardo cadrò in terra, 
sarà vernice bianca la mia assenza, intonaco nudo che si vergogna.
Datemi il fissaggio forte di un faccia a faccia, 
e vi lascio il fiore al muro, e non strappo via il decoro. 
Avete occhi per salvare, 
la tappezzeria di una stanza.


sabato 10 dicembre 2011

Se la ride il cielo.


Se la ride il cielo,
con la sua chioma di stelle accese,
se la ride la notte,
con la sua acconciatura di carboni spenti,
se la spassano lassù,
a sentire i pettegolezzi calvi delle nostre stempiate lingue,
noi parole con la piazza nuda in testa,
noi voci col berretto calcato in fronte,
nascondiamo sotto la lana questa caduta precoce del senso,
in bocca un dire da capelloni convinti,
in terra ciocche pronte a smentirci.


sabato 3 dicembre 2011

Preghiera spenta


E adesso che ogni preghiera si è spenta, 
lo stoppino della candela mi dorme contro, nudo tra l’attesa e il fianco. 
Io sfollata cattedrale invoco la visita di un rintocco, 
ma la campana per dispetto sequestra l’ora e trattiene il colpo.
Gli occhi dei santi puntati addosso, 
a molestarmi le mura e divorarmi le panche, 
(nessun fedele li distoglie con il grido del rosario). 
Tutti assenti e zitti, 
quando il mio altare cede, la croce crolla e Cristo nasconde la faccia.

All'occhio di bue


Noi a chiusura cocciuta,
andiamo nel fortino di un guscio che non si svita, 
uova sode di spavento, 
noi bolliti nella paura, duri per fiamma ricevuta,
traditi dal bagno dentro l’acqua, il nostro battesimo è stato ustione.
Noi a rotolare senza gambe, spinti da braccia che non hanno carne, arriviamo a fondovalle per guardare poi su in cima, che chissà quale fantasma ci ha fatti cadere giù. 
Nell’albume di calce asciutta, siamo tuorli murati vivi, costretti a sbattere l’uno contro l’altro per spaccarci le galere, 
mandare a pezzi sbarre e tombe per rinascere diversi.
Magari dentro a un tegamino, tutti fatti all’occhio di bue. 
Rotti ma liberi.Di mostrarci e di vedere.

lunedì 28 novembre 2011

La stella nera.


Stropiccio gli alfabeti, strizzo le parole fino a farne mille pieghe,
le invecchio all’ultima ruga, dove la voce s’accuccia solo a dire il vero,
e il fiato per mentire non trova spazio,
e lo spazio per il fiato si è fatto smilzo,
ossicino ultimo della confessione, coda magra di colpi nuovi.
E  sputano il sasso dalla gola, queste lettere piegate alla gobba, schiacciate alla terra,
rimettono il reperto del cielo, 
la stella nera, il cruccio del gregge,
stella caduta per mancanza di pastore.
Quella che scombina gli zodiaci e tira matta la sorte. 
E’ l’ingoio dei forzati al suolo, il rigurgito che nessuno vuole in bocca,
tranne quando la parola muore.
E per vivere non serve più catena di segni nè illusioni.

venerdì 25 novembre 2011

Al sud della notte

Al sud della notte un'infiorata di stelle,
ghirlande sciupate dall'orgia dei santi,
braghe calate e preghiere all'aria,
il frate che cade in mezzo alla piazza,
pesce sventrato a fargli da rete,
triglia e sarda sotto la chiappa.
Al sud della notte un ragazzo sghignazza,
fa il verso del mare quando cova la furia,
schiuma birra da un boccale di scoglio,
impenna il motore per sedurre la riva,
lo chiamano scemo quando rimorchia la sabbia
(ma a lui piace quel seno di terra).
Al sud della notte si mangia pane e porchetta,
la Madonna s'ingrassa e la teca va in pezzi,
lardo celeste, piedi nudi e vetri rotti
(Maria il fachiro che più se la spassa)
Al sud della notte la vita è chiasso di nave,
grido d'attracco al porto di un occhio
(che adesso si chiude).

giovedì 24 novembre 2011

Il naso di Pinocchio


Scoppia la bottiglia dell’infanzia,
e il turacciolo di un latte amaro colpisce
in pieno la mia fronte.
Resto sveglia nel bernoccolo di un seno fallito,
il suo dare scaduto mi spunta in mezzo agli occhi,
cresce assieme alle verità perdute, ai pasti saltati.
E’ il naso di Pinocchio che volevano farmi mangiare.
Ma io  non sono da burattino, non vivo per legno e bugia.
Datemi carne, e la pasta lavorata con due mani di madre,
voglio saziarmi tra la destra e la sinistra di chi mi ha messo al mondo.
Scrollate la tovaglia e frullatemi tutte le briciole cadute,
che si riempia il piatto di amore omogeneizzato,
fa niente se fa crosta o scoppia in bolla.
Va bene tutto, quando c’è fame.

domenica 20 novembre 2011

Raccoglietemi col pane.


Buttata nell’olio vecchio, girata tutta negli avanzi delle estreme unzioni, io chiusa nella pastella dell’ultimo respiro,
fritta dentro la confessione di qualcuno che non ha più niente da tenere.
Qualcuno che se ne deve andare rachitico nel cielo, e scarica carne per volare.
Io saltata con lo schizzo del condimento,
ricaduta in pentola per nostalgia di ghisa che tiene e brucia. 
Mi ustiono a furia di stare al mondo, di stare al fornello di una cucina, 
al fuoco acceso di una famiglia che scorda il timer e mangia cenere.
Io servita nel piatto, 
ormai scarto di sigaretta, rovescio d’urna, polvere non più commestibile. Fate che io sia intingolo, raccoglietemi col pane.
Che magari vi rinasco in gola. Viva nel colpo di tosse. 
Più vera di una parola.

sabato 19 novembre 2011

Castelli in terra.

Giorni di gesti sgretolati,
sabbia e pietrisco dentro le ossa,
a seminare polveri e accumulare castelli in terra.
E ogni tanto l'ondata dell'attimo si porta via la torre o il ponte levatoio e di un abbraccio resta maceria. Allora mi siedo tra gli avanzi e comincio a dividere le pietruzze del gesto dai sassi dell'intenzione,
ne faccio due montagnole che si guardano,
una di fronte all'altra, stature uguali, geometrie gemelle.
Triangoli fuori e straniere dentro.
Una forma clandestina nel cuore, non si sa da dove venga, nè a quale incastro sia diretta.
Gesto e intenzione, due montagnole che si guardano.Troppo esuli per il coraggio di unirsi a cima.
E prendere residenza in vetta.

mercoledì 16 novembre 2011

Nera tra le rondini


Sbucata fuori dal nido, spennata donna col becco aperto,
e il verme crudo a colazione.
Tengo il vestito straccio di un guscio rotto,
zingara covata da una carovana di nuvole, spinta fuori a scroscio d’acquazzone.
Figlia di bambagia bianca
(mia madre struccata in viso, tutta latte la sua pelle)
venuta al mondo per singhiozzo, poppata svelta e fame troppa
( mia madre ciliegia in bocca,  tutte rosse le sue labbra)
sbavata in terra e rimarcata in cielo,
vivo nera tra le rondini.
Sono un tratto di carbone, la sgommata di un uovo che dopo la schiusa sterza.
E all’incrocio tra asfalto e vento, sceglie il volo.


martedì 15 novembre 2011

Nottesanta.


Incasso la notte, un pugilato di stelle nel ventre,
guantoni cadenti per costola e milza,
un Cristo in fasce scambia il mio livido per la sua culla,
nel torace tengo capanna
e una Betlemme in processione risale.
Dall’inguine allo sterno,
calca e folla sul mio osso.
Respiro il peso del pastorello,
la suola che mi calpesta,
cuoio e fango diretti a Dio.
Sono il ponte per l’Aldilà,
picchiano forte sul mio corpo tutti i sandali della terra,
alluci nudi a indicare la via.
Terza costola e ci si ferma. Un coro di calci la sfonda.
L’Alelluia dei piedi al Salvatore che strilla.
La sua nascita è la mia frattura.

martedì 8 novembre 2011

Noi, che non ci siamo mai visti


Il popolo ha battuto la testa, ematoma interno,
nel cranio il capriccio di una rosa avvizzita, grugno di petali in fronte,
l’uomo suda il cattivo odore dell’acqua scarsa, del fiore in secca. 
Se qualcuno ragiona, tappiamoci il naso, le narici nella morsa di una molletta e il puzzo del senno scompare.
Meglio calare le braghe, buttarsi nudi per la strada, le crudità all’aria e lo stracotto del pensiero in pasto ai passeri, in bocca al cielo.
Che si strafoghi il sole e s’ingozzi la luna, per indigestione crepi il giorno e la notte lo sotterri. Niente angeli, soltanto allegri becchini a custodirci le quotidiane azioni. Andremo a polsi legati, al riparo da ogni fare, 
andremo nella disoccupazione dei matti,
tutti scansafatiche ad acchiappare gli occhi degli altri, come fossero farfalle da collezione. 
Colla agli sguardi, a riempire gli album e sfogliarci in eterno.
Noi, che non ci siamo mai visti.

sabato 5 novembre 2011

Acquabestia


Suda duro, il giorno, strizza fatica sotto le ascelle,
colpi bassi d’acqua bestia,
a picchiarmi alluvione nel ventre,
mare rotto che spaventa il pianto.
Ero incinta di un distacco, la pancia mossa per abbandono.
Nel sonoro di pugnetti e calci,
già strillava il mio addio.
Che adesso tace.
E piano affoga.



giovedì 3 novembre 2011

Ladra da carnevale


M’illudo bandito, saccheggio le tasche degli altri,
mano dentro spinta piano,
che la mia pelle è velina, in controluce scompare.
Levo il pugno dal fodero, dita in polvere nel sole.
Lascio indizio di cenere, come tabacco sul pantalone.
Per una fumata distratta non mi si può condannare.
Mi credono innocente e cascano in errore.
Sono una ladra da carnevale,
la trombetta mi fischia in bocca
e la stella mi fila in faccia,
quando scopro che il mio colpo è andato male.
Apro la mano e scattano bugie. 
Scherzetti a molla per una refurtiva che si aspettava verità.

mercoledì 2 novembre 2011

Sèraphine de Senlis- pittrice


Era piccola, il corpo di una pannocchia che fa le grinze ma non si sfoglia, teneva grani di luce sotto la pelle, un addobbo di Natale acceso tutto l’anno. 
Il bambino Gesù le scalciava dentro gli occhi e lei ragliava nel respiro per scaldargli sonno e veglia. Sèraphine faceva l’asinello per devozione al cielo, era bestia da soma per servitù alla terra. Donna di strofinaccio nella casa dei padroni ricchi, trovò ispirazione nella macchia sul pavimento, nel grasso del tegame, in tutto lo sporco che suscita smorfia, nell’abbandono che alla gente crea lo schifo.
Prese a dipingere con gli scarti degli altri, un vino scaduto divenne il rosso di un fiore, petali degni di una sbronza d’annale.
Spendeva spiccioli per comprarsi le tele, ogni goccia di sudore era iuta guadagnata, si seccava i muscoli per la misura di un metro x due. 
Le farfalle di Dio le sbattevano le ali in gola, Sèraphine cantava il baccano di voli celesti, spaccava il timpano ai diavoli col fruscio del suo pennello.
Piantava semi nel buio di una mansarda, la sua passione era l’unico sole capace di farli crescere.
A singhiozzi di fede vangava la notte, e una stanza stretta si riempiva di stelle larghe a sufficienza da farci stare in ognuna un fiore. 
Troppo sola per farsi sentire, Sèraphine parlava niente, diceva tutto con il colore, per esistere poteva solo farsi vedere, rovesciare la serra del cuore sopra il campo del mondo. E quanti graffi al costato, quelle spine versate giù in terra, quelle rose buttate fuori dal petto, munte tanto da sfinire i seni. Possiamo vedere un latte che strilla, nel bianco delle sfumature, un bimbo che sbava, nella schiuma di un azzurro rappreso. 
Sèraphine abbracciava gli alberi, sposa del tronco e madre della corteccia, trovava famiglia nel sottosuolo di una radice che s’alza, cocciuta e forte al cielo.
Dedicò il suo ultimo respiro alla quercia d’infanzia. In una giornata d’aria ferma, offrì colpo di vento alle foglie. E segno di vita ai rami.

La voce rotta

Gioco con i silenzi, me li rigiro sul naso come la foca con la palla,
annuso le acrobazie di parole che non toccano suono nè terra,
le narici mi si riempiono di volteggi, equilibri precari che tappano il respiro.
Ho un raffreddore da circo, bronchi intasati da un'attesa muta, tutta trapezio e salto mortale.
Il mio starnuto provoca lo schianto di ciò che tace, dall'alto della corda casca la parola.
Sillabe sparse, ossa rotte che fanno rumore.
Mi chino a terra, orecchio al suolo.
La frattura multipla comincia a dire.
Ascolto la storia di una voce rotta, e scrivo per aggiustarla.

martedì 1 novembre 2011

Illusi maestri

Fa il verso della rana, la memoria,
gracchia nello stagno della testa e assorda il presente.
Così l'oggi  rintronato e sordo si ricovera all'ospizio e la ciurma dei tanti ieri s'iscrive all'asilo, pronta a cantare a squarciagola la filastrocca dei nostri errori.
In fila per due, ci passano inananzi le occasioni perdute, scolarette in grembiule bianco,
tutte a bacchettare noi altri, illusi maestri.

lunedì 31 ottobre 2011

Lisca nuda


Seduta sulla riva a fumare il mare,
tiro alghe e coralli nei polmoni,
la triglia cade nella rete del respiro,
sbatte la coda contro lo sterno,
scambia il mio osso per una campana
e l’ora dell’abisso mi affoga il cuore.
Sommersa, cotta, tutta vapore.
Il mio corpo sgasa, grammo a grammo fugge e sale.
Eccomi, lisca nuda. Piatta e ferma sul fondale.

venerdì 28 ottobre 2011

Favola vera


La notte è fornello chiuso male, gas tossico il suo respiro rauco, 
d’orco che sfiata rabbia per una favola a lieto fine. 
Se il principe fosse morto, ci sarebbe aria pura e silenzio ora. 
Invece un chiasso di polmone e metano mi tiene sveglia. 
Provoca insonnia, il Tutti vissero felici e contenti.
Gli occhi restano aperti e increduli,
a chiuderli serve il bacio della principessa in bocca al rospo che tale resta. 
Così dormo in pace. 
Convinta che questa favola sia vera.

mercoledì 26 ottobre 2011

sullo scrivere- Per la vita in gola.

Scrivere è ridursi a misura piccola, entrare nella veste del bebè, chiudersi dentro la tutina di spugna e d'infanzia, scalciare a piede matto l'alfabeto di gomma che ci rimbalza addosso, farlo vorticare sopra la culla di uno stizzito pianto, lanciarlo dentro la rete del girello, per il goal del primo passo, il punto segnato di un primo verso....
Scrivere contro questo stare adulto,
stracciare la copia matura di altre copie già vecchie,
provare il testo nuovo di chi parla con la smorfia,
di chi racconta col singhiozzo, protesta con la pernacchia,
e gioca serio quando chiede latte.
E gioca duro per la vita in gola.

martedì 25 ottobre 2011

Il Gran Premio di un respiro


Ho un respiro abrasivo, graffio l’aria mentre vivo.
Levo pelle morta al vento, gli rimetto all’aria la ferita, 
sollevo la basculante di un dolore parcheggiato.
A spinta di polmone metto in moto quel taglio fermo, soffio contro la marcia in folle.
Faccio tosse affinchè la prima entri, tremo in bocca che così lui parte.
Parte il taglio, schiaccia sul pedale a tutto dolore e semina il vento, gli affumica la carne. 
Respiro polvere adesso, le ceneri dell’aria.
Di rombo e gas è  la notte.

domenica 23 ottobre 2011

Senzamadre


Ti strappi quando mi guardi,
butti ovatta dalle rughe, rompi il vetro che hai negli occhi,
bambola di pezza tu ciondoli le braccia, perdi il ciuccio dalla bocca,
strilli la tua fame fino a stordire la mia lingua.
Mi vuoi zitta e tonta, da non poterti versare una parola nel brodo né un pensiero nel latte.
Ti vedo,
donna centenaria e poppante.
Così vecchia di scodella e minestra,
così giovane di biberon e pappa,
confondi il numero degli anni.
A volte ti conto nonna, altre mi risulti figlia.
Vorrei che per una volta,
la tua somma mi desse Madre.

sabato 22 ottobre 2011

Acciuga secca


Io corpo di mare abbandono le acque, 
naufraga sulla riva m’inscatolo acciuga secca per sfamarti d’abisso e sale. 
Sfoglia la mia lamiera e pescami nel morso.
Sarò lisca tra i tuoi denti, 
ago nel molare a cucirti gli strappi dei respiri
e i buchi delle parole.

lunedì 17 ottobre 2011

Parola in mutande


Sono fatta di corde lente, 
canapa tradita dal nodo, ritorta sola e stanca, 
con l’invida per il giro stretto delle serpe e il gancio saldo della cinghia.
Vado senza sibilo né fibbia,
la mia lingua non si biforca e il calzone dalla vita casca. 
Dico a senso unico, 
con la mutanda che sbuca al mondo,
e la paura di farmi addosso
quella parola che cade dritta se non trattengo.

giovedì 13 ottobre 2011

Il trapianto


Pezzo di notte tra una costola e l’altra,
come briciola da dente a dente,
ad ogni morso d’aria batte,
contro la gengiva del cuore punge.
E s’infiamma il ventricolo destro
bucato quello sinistro,
respiro e mi guasto,
prendo aria e scavo carie,
finchè resta fosso nel petto
per il trapianto di una meteora che io so.
Adesso casca.

mercoledì 12 ottobre 2011

Nei cocci che siamo

Nei cocci che siamo, tenuti assieme per pietà di colla,
nelle cicatrici che portiamo a spasso, sguinzagliate per fame d'osso,
nei punti di sutura impicciati nelle ferite, sventolati per urgenza d'aria,
nelle balbuzie della carne, nelle sdentate parole del corpo, nelle dentiere rotte dei sensi,
nell'impreciso e nell'imperfetto che siamo. La verità sola che abbiamo.

(...contavo le rughe di mia madre, in quella somma trovavo verità, nel risultato di pieghe scritte sopra la fronte, nel numero di solchi arati sotto gli occhi, in quella cifra trovavo il diametro del suo grembo...lì riconoscevo la taglia che lei indossò per mettermi al mondo... lì stava il mio documento di figlia, non nella sbavatura del rossetto che il suo bacio mi lasciava in fronte..... )

domenica 9 ottobre 2011

Madre d'assalto

Madre d'assalto,
questa terra che mi sbaciucchia i piedi
fino a togliere fiato ai passi.
E vado strozzata,
a cercare il getto di latte che mi sturi la gola,
affinchè il sasso di figlia asfissiata voli fuori dalla bocca,
sopra le ali di uno sputo.

martedì 4 ottobre 2011

Tre quarti bambino e il resto uomo

Mio nonno stava tutto dentro un litro di vino, tre quarti bambino e il resto uomo.
In lui c'era l'uva calpestata, il grappolo offeso per la perdina dell'acino. Un viticcio pieno di abbandoni, l'orizzonte del suo sguardo.
Teneva la vista bucata del Gruviera servito in tavola. Occhi di latte vaccino, cotto sul fuoco e scoppiato in bolle. Occhi a crateri sparsi, cicatrici tonde dopo l'esplosione.
Era vino fermo nel pugno, mosso nella carezza. La rabbia gli toglieva gas dai nervi, con l'umore buono salivano bollicine nel sangue. Quando gli frizzava la mano, mi allungava la mancia. Toccavo la sua gioia, in una banconota da cinquemila lire.
Si dava a piccoli sorsi, per averlo non bisognava essere ingordi. Andava gustato piano, a trincarlo d'un fiato ci si pigliava una sbronza brutta da smaltire.
Nonno aveva la gradazione alcolica del monte Everest, bisognava salirci legati alla cinghia di sicurezza, passo ragionato e attento al vuoto di sotto.
Qualcuno si ubriacò di lui. E pagò con lo schianto in terra.

sabato 1 ottobre 2011

Terzo tempo


Notte invalida, stelle storpie che mi picchiano il bastone negli occhi, 
e la vecchiaia del cielo mi ammala la vista,
una cataratta millenaria si cala a sipario sull’adesso,
scende col suo broccato rosso a chiudermi l’istante.
Esce di scena tutto il presente,
primo e secondo atto dietro le quinte.
Non vedo più niente, sola sul palco.Per un terzo tempo che non esiste.

venerdì 30 settembre 2011

Vacca magra


Vacca magra questo corpo che bruca a ciuffi l’abbandono,
il muso cacciato in terra calva, 
dietro la traccia di un tagliaerba, 
la lingua strofinata al sasso che magari spunta un fiore,
che magari a leccare pietra ci si cava un giglio bianco, 
qualche petalo di latte e una caloria d’amore.

lunedì 26 settembre 2011

La colazione degli angeli

E noi ci prendiamo tutto l'assalto del cielo,
l'infuriata delle stelle che a sciame di cavallette bucano la notte e crollano giù, nel pieno del giorno,
a invaderci sbadigli e bocche lasciate aperte.
Mastica, mi dico, spezza tutte le cinque punte degli astri diurni,
mangia, mi dico, divora tutte le colazioni destinate agli angeli,
fai fuori pure le briciole di queste biscottate meteore,
salvale mi dico, risparmiale dallo schianto in terra con l'ingoio in pancia.
Saziati, mi dico, e fregatene se domattina il Paradiso non avrà più pane nella dispensa.

sabato 24 settembre 2011

Notte da sarti

E' notte da bucare con lo spillo di un respiro,
notte da farci la maglia con i ferri della nonna,
notte che dobbiamo imbastire, passare all'ago dell'iinfanzia,
tirare al filo di quel ricamo che fu solletico dentro la culla,
è notte di noi altri sarti smemorati,
buoni a sbagliare misura e scambiare il girovita della luna per quello del sole.
Notte vestita col nostro errore,
costretta giorno dai fianchi ai piedi. Nell'alba di un gonnellone che già copre tutte le stelle.

giovedì 15 settembre 2011

padri lontanissimi

Da bambina passavo ore accanto alla finestra della mia stanza, mi girava in testa la convinzione di esseri lontani in visita dallo spazio.  Alieni antenati, barbe bianche passate dentro la vernice fresca delle stelle, omuncoli con la pelle cosparsa di mappe cosmiche, un pieno di rughe addosso con cui tutti i pianeti dovevano fare i conti, per non smarrirsi nel giro a vuoto delle proprie orbite.
Cercavo nel mezzo della notte i corpi dei padri lontanissimi, li immaginavo a bordo di una navicella fatta a legno e corda, canestro intrecciato alla coda delle comete, prototipo della mia culla di nascita.
Mi figuravo venuta al mondo per lo sfizio di uno sbarco, per il collaudo di un  atterraggio sulla terra.

domenica 11 settembre 2011

Il buon investimento.

Spendo il mio silenzio,
fino all'ultimo centesimo di lingua muta
io lo sperpero.
Se ne va ogni spicciolo per l'acquisto
di mura sconvolte,
strade bucate,
catapecchie di stelle cadute,
fatiche prese a sassate.
Spendo il mio silenzio,
compro maceria e poi la risollevo,
parola su parola,
in costruzione che dice.

domenica 4 settembre 2011

Lavavetri


Tengono addosso abiti tolti dai sacchi, li vedi indossare il pranzo e la cena dell’immondizia, jeans e magliette che ingrassano i bidoni. Fermi ai semafori con l’arancione negli occhi, uno sguardo a costante rischio di multa, frenare i piedi o dare gas alle gambe è lo stesso.Il solo fatto di esistere li espone all’infrazione.
E quando l’auto accosta, loro bisbigliano al motore, implorano una partenza ritardata, si mordono la lingua per convincere i pistoni a fare basta, a fare blocco. A fare sì che il vetro non opponga resistenza, che il tergicristallo non scalci la sua impazienza. E se appena la carrozzeria acconsente e il motore scorda i giri, allora eccoli strizzare tutta la loro fame di pagnotta, a spugna lercia di digiuni, sopra il finestrino obeso di un Suv ingordo.

martedì 30 agosto 2011

Sul ruolo dello scrittore-distruggere le padelle e imboccare a crudo.

Camminiamo con le tasche piene di idoli, ce li cacciano di nascosto dentro le fodere dei calzoni, lo fanno con la mano del ladro rivoluzionario, quello che anzichè compiere il crimine con il furto, lo realizza con l'offerta.
Il sistema ci costringe a subire torti travestiti da doni, togliendoci la possibilità del rifiuto.
Dobbiamo allora caricare il No sottratto, riempirlo con i monili del bello, il vestiario del vero, farlo monumento impossibile da sollevare, protesta che a vederla ci si inginocchia presi dallo stupore.
Così saremo pronti ad accorgerci che esite quel No, saremo pronti a difenderlo dagli agguati, a proteggerlo dalle imboscate. E lui allora si farà padre, a figliare il  Sì che andiamo cercando.

Oggi la bocca di Artoud verrebbe tappata da una calca di mille mani, il suo grido finirebbe intrappolato tra i gemelli d'oro dei polsini bianchi, oggi più di allora la verità offerta cruda indegna il morso e aizza il conato.Si preferisce farne fettine panate. Olio, pangrattato e una frittura tosta a imbrogliare il gusto.
Sta a noi, distruggere le padelle e imboccare a crudo.
Insistere comunque, nonostante lo spavento delle bocche e la rivolta degli stomaci.

lunedì 29 agosto 2011

Corpoarmato.


Investo i miei passi, a corpo armato mi calpesto le orme. 
Cingoli ai piedi, riduco a ossa rotte il cammino andato.
Pirata della strada, occhio bendato e mano monca, 
assalto le rotte già segnate.
In miseria di stracci lascio gli anni perduti.
Ladra al passato, fuggiasca al presente,
la mia vita da ricercata.
Una taglia sopra la testa
e la faccia appesa ai muri.

domenica 28 agosto 2011

La mimetica della ragione



Dal quartier generale del corpo,
ripasso i comandi da impartire ai sensi.
Ma loro sono soldati fuori legge,
bambini arruolati sotto banco.
Cedono all’innocenza dell’età minore e disertano la guerra.
Scappano dal forte, cuccioli esuli e randagi.
Salvi per disubbidienza alla divisa della testa,
e alla mimetica della ragione.

sabato 27 agosto 2011

Mal che vada, santi.

Quando passiamo di data e scadiamo al mondo,
noi tutti ci stringiamo nell'infanzia, genuflessi davanti a un altare di seni gonfiati a latte, le bocche strette a suggere preghiera dal capezzolo crocefisso, beviamo il chiodo, trinchiamo la piaga, ci ubriachiamo di martirio, liquore buono a convincerci che, a fine poppata, non saremo più orfani....E mal che vada, ci faranno santi.

venerdì 26 agosto 2011

Sul movimento della parola

Uno dei movimenti feroci a cui il mio corpo si offre per buttare parola al mondo, è la slogatura massima degli equilibri.
Un rovescio di posture abituali m'impianta il burattino folle nel midollo, giunture e ossa se ne vanno sballottate da fili che non governo, si preparano al lancio, alla gettata in avanti, spiccano il salto prima che io decida la spinta. Come lenze scappate alla canna, si dimenano in volteggi di danza. In scodate feline nell'aria, azzardano la pesca di un alfabeto che guizza dall'abisso al cielo.

Raccontiamoci  le santissime  crudeltà, i biglietti d'andata obliterati a grido e sangue, documenti necessari a mandarci là, dove la parola si sveglia e sbuca fuori dal lenzuolo della carne.

E penso a mia nonna, allle sue spalle curve per carico massimo di giganti accolti sopra la schiena.
Penso a lei, piccina a furia di limarsi centimetri dalle ossa e fare spazio alla tonnellata di guai altrui.
Lei schiacciata in sacrificio, ridotta sfoglia per amore, lei che riusciva sempre a tirarsi lunga, gonfiarsi altissima oltre il sole...Questo suo stesso sforzo di lievito cocciuto, deve compiere la parola.







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venerdì 19 agosto 2011

ASSUNTA

Assunta voleva che l'orizzonte cadesse sulle ginocchia, si aspettava la genuflessione del cielo in risposta alla supplica del suo sguardo.
Lei se ne stava lì, tra i covoni di grano, nel cartoccio di una solitudine cacciata dentro il forno delle ore. L'assenza le cuoceva addosso, mentre gli occhi restavano crudi, fuggiti di padella e senno.Una visione al carpaccio, servita fredda alle stelle.
Si toccava la pancia, con le dita correva attorno alla cupola che spuntava da sotto la pelle.
Erano passati otto mesi ormai.Già si sentiva il calcio nel ventre, lo spillo di un calcagno pronto a imbastirsi la vita. Da lì a poco sarebbe arrivato il graffio sonoro, l'unghiata acustica del primo pianto.
Assunta stringe il pugno, lo appoggia in mezzo alle gambe.Batte il ritmo di un singhiozzo, l'anticipo di uno strillo che già stiracchia le corde vocali e si prepara alla sveglia.

Dormi ancora, ti attacco il sonno alla prolunga e lo collego alla centrale elettrica della luna. Tu non puoi vederla, ma questa notte lei è alta, tutta tonda come la pancia che mi hai fatto crescere.
Abbiamo abbastanza corrente da tirare alla lunga i sogni, spegni la premura di aprire gli occhi.
Risparmia l'energia per fare luce dove stanno i morti, o quelli uguali a te che ancora non sono nati.
Se ti butti al mondo carichi il mio tuffo di troppo peso e mi costringi a pestare le speranze sulla pietra aguzza del fondale.A che ti serve una madre con la fronte bucata e la tempia guasta, che poi il pensiero sgocciola fuori e la mia zucca resta vuota.Una bolla bianca attaccata al collo, aria e sapone da soffiare lontano.
A colpi di fiato dovresti spingermi accanto ai fornelli, chiedermi di scaldarti il latte nel pentolino, quando la mia mammella andrà in bancarotta. Ho poche monete dentro il petto, la carestia mi minaccia il cuore.
Su mio padre non posso contare.Gli ho detto di te e lui si è piegato a sistemare la mangiatoia delle bestie.Paglia e fieno tra le mani, ha dato fuoco al silenzio.Sulla faccia una combustione di smorfie e in bocca la fiamma di un Vattene da qui.Non ti stupire, tuo nonno è uno consacrato al badile, abituato a dedicare carezze al bastone di una vanga, a sciogliere baci nel sudore e poi versarli sopra i campi.Così può irrigare l’orto, condire i pomodori e l'insalata con l'unica specie d’more che gli bagna la fronte e gli inzuppa le ascelle.
Sono l'ultima di otto sorelle, la figlia di coda, quella che si rizza soltanto per marcare il suolo con la frignata dell'intestino, il lamento sozzo della pancia.Puzzo di scarto, papà non me lo caccia il naso dentro al cuore.
Lo vedi che non vale la pena uscire da quel manicotto di cielo che ti scalda la notte? Strofinati le mani contro la lana nera che mi pizzica la pancia, infiammati i palmi con i riccioli di pecore tosate e sogni caduti, bruciati i pugni e pesta il gelo di questo inverno.Se credi che nascere sia un'estate, allora ti sbagli.
Suor Vittoria mi ha sentita, mentre ti tenevo in bocca, lì davanti al nonno.E sbriciolavo tra le labbra tutta la paura del tuo arrivo.
Ha visto che lui non ha esitato a cacciarmi, ha visto la forca della sua indifferenza infilzarmi le suppliche e ridurre a colabrodo la mia preghiera. Vuole che io la segua in convento, mi ritiri al lavoro forzato di tre messe e sei orazioni al giorno.Così levo mio padre dall'imbroglio del disonore e riservo a stessa l'inganno di anima pia e fedele.Tu finiresti come un boccone in gola all'affamato, trangugiato a furia da abbracci sconosciuti, fatto a pezzi contro un seno che magari ti metterà anche caviale dentro il latte, ma senza chiederti mai se a te piace il suo sapore.
Dormi ancora, dammi retta.Che io non mi lascerò battere i denti dallo scalpello dei salmi, per versarmi poi pastina e brodo sulle gengive nude. E con la bocca metà vecchia e metà poppante, succhiare i resti di Dio dalla cera di candele spente.
Chiudi forte quegli occhi, vedrai le note di una canzone.E il buio canterà per te.




Assunta è distesa ora, il suo corpo è un balenottero spiaggiato nel grano.Sfiata memoria d’abisso, spruzza al cielo il principio e la fine del mare.Tra le cosce, il fragore dell’ultima onda. Silenzio.E poi il chiasso del primo pianto.
Fu Suor Vittoria  a trovarla, quella donna infagottata di favola e disgrazia, avvolta nel piumone di una speranza che ormai perdeva piume da tutte le parti.Assunta partorì sola, nello sbrego di un urlo che risucchiò il sole dentro la sua pancia di luna piena.La campagna bergamasca cacciava ululati di lupa alla vita, mentre gli anni ’50 facevano branco attorno al fuoco acceso del rock’n roll.

GINO

Virginio era Gino per gli altri.Nome stretto dentro due sillabe, tenuto a tenaglia tra lingua e palato.Lo cavavi fuori svelto, quel nomignolo di tappo smilzo, spinto nel collo largo di bottiglia.

La gente lo stappava nel grido ripetuto, lanciato da un lato all'altro del cortile.
Gino turacciolo e poi pallone.Sbalzato fuori da un vetro, palleggiato contro la parete del garage che per lui era tana privata.Scappatoia dove la fuga si rimboccava la coperta, i guai si calcavano un berretto in testa.

E buonanotte realtà.Sogni d'oro al turno in fabbrica quando il gallo russa ancora.
Operaio specializzato, Gino teneva il privilegio della fiamma ossidrica in mezzo a uomini rassegnati al cerino, alla scintilla dello zolfanello che brucia in fretta il suo destino.Andava fiero di essere saldatore, uomo capace di fare un pezzo intero da due avanzi di lamiera.Per lui lo scarto era motivo di creazione, nel residuo stanava la costola di Adamo.Tirava fuori la sua donna,se la stringeva al petto nel passaggio finale di un montaggio a catena.Dove gli altri inciampavano nella fatica, lui liberava un passo di walzer.Perdeva musica dalla suola, viola e tromba dal rattoppo, felice di una lamiera fatta dama e ballerina.

Rientrava al suo cortile, la sera.Una nervatura di foglie secche sopra il viso, la giornata gli consumava la stagione.In casa Gino era uno strapazzo di colori, autunno sfinito dalla raffica del primo turno, dalla corrente dell'ultima sirena.Quel suono gli facevo il callo nella testa, era durone attecchito al pensiero, spiccato al calcagno della coscienza.Ogni metro da ragionare si faceva fitta dentro la scarpa.

Così Gino arrestava il tragitto, piantava in terra le parole, smetteva la voce per riposare il piede.
Zitto dentro la poltrona, versava vino nel bicchiere.Lasciava al Barbera l'onere del cammino.E questo gli sgambettava in gola, gli crollava in pancia con lo scatto del centometrista.
Il Barbera oltre la linea del traguardo, Gino inchiodato alla partenza.Nella misura di questa distanza, passavano i giorni.

Ogni tanto la vita ficcava il nastro tra le ore.Lo faceva col guizzo del pesce dentro la rete, un'invadenza da benedire a remo incrociato.Sbatteva la coda in faccia a Gino, gli scuoteva addosso le sue branchie. Sventagliava luce e scaglie, quella vita emersa dal fondale.E lui se la pigliava tra i denti, col desiderio di cambiare sapore, di variare movimento.Dalla sberla dell’alcol alla carezza del mare.
E con il sale sopra la pelle e l’onda viva nella bocca, Gino trovava approdo nella rimessa del suo cortile.

Uno spazio  pieno di mensole, chiodi piantati al muro senza niente appeso sopra.Chiodi compagni di un’intonaco malandato, messi su per consolazione di crepe solitarie.
C’era una vasca zeppa di pennelli e barattoli di vernice, colori in attesa di essere dati, impazienti di compiere la volontà di una superficie.
Gino stava piegato sulle ginocchia, mescolava il bianco all’ocra scuro, girava piano e poi sbatteva. Tirava fuori l’occhio di bue dell’uovo saltato in padella.Imboccava di colore quattro assi prese a caso, poi divideva le porzioni per sfamare le pareti.Lo faceva a colpi di pennello, nell’andata e ritorno di un braccio sempre pronto al viaggio.
Lui era felice tra le sue mura, uomo di sbronze spente in gola, tornavo sobrio in una tinta accesa.
Si sentiva utile al cemento, necessario alla sua cura.

Dal soffitto della rimessa pendeva un cartello tutto sghembo.
Una scritta verniciata in rosso era monito per chiunque entrasse.”Ogni cosa al suo posto”.
Perchè Gino voleva bene al suo garage, pretendeva che gli altri portassero rispetto ai metri quadri della sua salvezza.Al perimetro che lo faceva durare.Da uomo libero e redento.
Taniche semivuote, macchie schizzate a terra, la trielina sopra uno straccio, la crosta scura del pennello.Tutto pareva avere residenza, tetto assegnato per merito e tenacia.Ogni cosa si era guadagnata un posto lì dentro.Insediamento da preservare e mantenere.
Di questo si preoccupava Gino.
Di difendere il valore delle cose.
Cose piccole, minute, rattrappite e sante.
Sconosciute al profitto, che a rivenderle non torna il soldo sfondato.
Cose abili a rimuovere la logica del mercato, la regola dell’imbroglio, per applicare la legge dello scambio gratuito, di un’offerta integra e totale.Nei confronti di un uomo che in queste trovava motivo di riscatto e ragione d’amore.
Gino prese parte alla seconda guerra mondiale, arruolato come aiuto cuoco a bordo di una nave.

Mai parlò della scarica di una mitraglia, o di un ferito caduto al suolo.Cacciò tutto sotto la botola della memoria.Ci restò sopra con i piedi, a fare chiusa sul coperchio.Un passo oltre gli sarebbe costato la mina del dolore.Esplosa nel ricordo, scoppiata addosso al cuore.
Forse il giro delle sue braccia, la mescola del suo colore, era addio alla guerra.Nel per sempre di un attimo.Nella tregua di una rimessa.Al disarmo delle ore.
Gino arrivato al settantacinquesimo compleanno.Lo rivedo col vento nelle guance, il soffio spinto sulle candeline.Al collo il bavaglio di un bambino.
Tiene latte nel bicchiere, la poppata dentro il vetro.Ci sta il verso di chi è appena nato, a rimpiazzo del Barbera. Un sonoro da succhiotto, sopra il chiasso del litro in gola.
Gino colpito da ictus.
Paralisi della parola.
Lui sempre zitto, ora vorrebbe parlare.
Infermità alle gambe.
Lui sempre in movimento.Ora costretto a restare.
Però negli occhi la vita gira, gli volteggia lungo il corpo, è capriola fino al piede.Sarà per via del walzer con la dama di latta.Per la musica che ancora esce dalla suola, o la viola che ancora scappa dal rattoppo.

Sarà perché il braccio destro Gino lo muove.E il suo pennello se ne sta lì.Salvo tra le dita.A dipingere un sole giallo sopra il foglio a quadri.
Il muro ha ridotto il suo spessore, l’intonaco ha cambiato di sostanza.Ma Gino continua.Anche nel millimetro, pure con la carta.Davanti al domicilio nuovo di un colore, passato dal barattolo al tubetto.
Gino comincia e ricomincia, l’interruzione non è il suo affare.
Ogni tanto prova a dire.Rischia la prima sillaba del suo nome.Tenta di nascere dalla sua iniziale.
”Gi”….”Gi”, una balbuzie analcolica, effervescente di coraggio, senza il gas della paura.
Mangia la sua fetta di torta.In una mano il cucchiaio, nell’altra il pennello.
E oggi non è più l’uomo che cercava un acquario di stelle dentro al fiasco di vino.Gino al cielo ci sta in mezzo. E’ punto fisso dello zodiaco.Ha trovato le coordinate del suo destino.
Posso vederlo, la notte.Mi basta girare lo sguardo su. In alto.

mercoledì 17 agosto 2011

LENA

Ho un affondo dentro gli occhi.L'intera flotta di luce colpita dal cannone solitario di una mattina lontana.Accadde quindici anni fa.Avevo venticinque anni e la voglia di rubare tutte le facce del mondo.Volevo stampare popoli interi su carta baritata, appendere sudari di corpi sconosciuti alle pareti, salutare appena sveglio la mia collezione di Cristi tolti all'anagrafe del cielo.Cercavo figli dalle croci nascoste, quelli scartati dalla briscola di Dio.Tipo il barbone che scambia la cenere di una Marlboro per incenso di chiesa, e si fuma a morte la sua salvezza. Oppure lo svitato da metropolitana, quello fissato al chiodo di una canzone da piaga fissa nella gola.
Giravo per le strade di Milano, il passo spudorato di chi vuole cacciarsi nelle case degli altri senza invito.A capofitto d'occhi entravo nelle stanze dei volti, toccavo le finestre degli sguardi con  dita sporche di sogni.Lasciavo impronte tra i battiti delle palpebre, ad ogni scatto di Laika rendevo eterna la mia manata.La camera oscura mi sviluppava i palmi.Guardavo i negativi e selezionavo le righe della sorte.
Il ritratto di Lena fu il mio segno migliore.
Una linea dell'amore in quadricromia.


Ti chiamavo Briciola, eri la promessa del mio pane quotidiano.Neanche un grammo di farina e già con te stavo sazio.
Suoni un flauto di plastica, con le dita tamponi l'emorragia del suono che scappa dai buchi.Hai talento per la cura, usi le note come punti di sutura e la cicatrice finisce in musica.Te ne stai seduta sul piazzale della stazione, i piedi chiusi nel cuoio, sandali aperti e alluci al cielo, perchè dall’alto cascano i grattacapi degli angeli e tu ne acchiappi le strofe.Il ritmo dei guai celesti ti scende nel tallone, batti pianto d’ala rotta sul selciato.


Briciola, dammi tre quarti del tuo viso. La porzione rimasta offrila al sole, che da sazio gli s’allarga il cuore e mi butta in terra l’ombra giusta.
Io ti chiedo di piegare la testa e tu ruoti gli occhi a giro di giostra.Poi smetti la musica e mi attacchi addosso la parola, la tua voce è fiaba adesiva.
Ti guardo illustrato, i sette nani sopra le braccia e Biancaneve stampata in petto.
Parli come una bambina, dieci anni sulla lingua e quasi venti cacciati in tasca. Chiusi assieme al centesimo della moneta, alla promessa di un panino.Fuori di bocca soltanto l’infanzia, gli altri domani in pasto ai calzoni.Perchè l’innocenza merita aria, l’ora libera in mezzo al cortile.I pensieri adulti se ne stiano in cella, e vadano pure a farsi isolare.
Un po’ più a destra, Briciola, dove il rasoio del sole sbarba l’ombra.Perfetto, non ti muovere. Io scatto e tu parli.

Lo so cosa tieni attaccato al collo, quella scatola nera è come il forziere che sta in fondo al mare.Il bauletto che incanta il pirata, quello ti tieni al collo.Vuoi difendere il tuo tesoro dall’attacco del vascello.Dimmi, com’è stato scendere tanto in basso? Pesava tanto il mare sopra la testa?Lo so che non è stato facile, convincere il corallo a levarsi dalla sua poltrona di alghe e la stella marina a lasciare il suo materasso di conchiglie.Del resto, io li posso capire.Là sotto non vedono il cielo, possono soltanto dormire e provare a cercarlo, dentro al sogno intendo dire.Provarci così, a cercare il cielo.Hai avuto coraggio, un leone dentro il cuore che ti ha spinto giù, a tante miglia d’acqua dalla terra.Così tanto in fondo, fino al sonno dei pesci e allo sbadiglio del forziere.Perchè lui, il tuo tesoro intendo dire, lui si è svegliato subito quando ti ha visto.E poi ti si è messo al collo per risalire, come il bambino che si attacca al seno della mamma per crescere.Succhia latte e sale su, aumenta di statura e diventa grande, sì. Alto più del sole, sedici anni  e la spalla già supera il cielo.La scatola nera che porti al collo è il tuo bambino, io lo so.Però non uno uguale a tutti gli altri, lui il latte non lo vuole.E’ ghiotto di volti,la sua poppata è fatta di sguardi.Io lo so che il tuo bambino mangia gli occhi della gente.

Parlò così Lena, quella briciola di donna che mi si conficcò tra i denti nel mezzo dei miei vent’anni.Provai a rimuoverla più volte, impugnai lo stecco di altri amori e fregai forte sotto il molare.Ma Lena mi restò in bocca, lei non se ne volle andare. Briciola contro la lingua a ricordare una fame eterna.
Aveva ragione, la mia Laika era forziere rubato al mare, figlio al collo che mangia occhi. E io vivevo da uomo criminale, un padre che insegna al figlio il mestiere di rubare.Briciola me lo fece capire, con il libro della sua favola scaraventato contro la mia ambizione.Vangelo troppo pesante da reggere, per un leggio che volta le spalle all’altare.

Più volte mi domandai se Briciola non fosse caduta dalla tavola del Signore, dall’avanzo del suo morso alla supplica della mia fame.
Perchè pure con tutti quei chili d’occhi ingoiati, io mi sono sempre sentito la pancia vuota e lo stomaco cieco. Vedevo fame, sempre e soltanto una fame nera.Ovunque preso a scattare foto, dentro la furia d’ingoiare volti, non mi accorgevo nemmeno che differenza di sapore ci fosse, tra il colore diverso di due sguardi.Celeste o marrone per me faceva lo stesso, mandavo giù l’indistinto.Una pappa che frullava tutto e salvava il nulla.

Il nulla, unico superstite rimasto in pancia.
Scappato dal ventre per solitudine.Venuto agli occhi per essere visto.
Me lo trovai sotto le palpebre, arrivò di mattina.Carico di fame nera, mi uccise gli occhi.Un solo morso e fece fuori tutta la luce.
Collasso alla retina.Cecità irreversibile.
Da quel giorno smisi con i furti e le abbuffate.Calai di peso ma non cambiai di taglia.Scelsi di tenere gli stessi abiti.Con una misura in più addosso, imparai che oltre a me potevano starci pure gli altri.Dentro al girovita del mio calzone.
Basta derubare le facce, oggi non m’interessa più il furtarello degli sguardi e la mangiata illecita.Mi sfamo con un fianco a fianco che sta alla legge.
Passo i pomeriggi seduto sul piazzale della stazione, in quell’angolo che fu della mia Lena.
Attendo che qualcuno si offra  volontario, faccia avanti gli occhi e mi metta sul piatto il viso.Allora io mi ci accosto, piano.E lo assaggio con le dita.
Una Briciola alla volta, ne traduco il gusto in suono.

MARINELLA

Marinella, il suo nome sta dentro una celebre canzone di Fabrizio De Andrè.La vidi appoggiata al muro della cascina in cui viveva.In piedi, scivolata in un fiume senza nome, ma ancora capace di reggersi in verticale, tenuta alla terra per le estremità dei piedi.Calzava sandali di cuoio, il tallone nudo e un pollice in affaccio.
Era autunno, pioveva un umido che da lì a breve si sarebbe fatto freddo da cappotto.Fatto curioso, allacciare il passo dentro l'estate.Restare indietro di una stagione solo nella parte bassa del corpo.Una gonna corta, le gambe scoperte, quasi niente ai piedi.E sopra invece la copriva il vantaggio di un dolcevita, la rincorsa di una giaccavento.Dai fianchi in su Marinella si buttava in avanti, anticipava l'inverno.Già preparata allo scambio tra il vecchio e il nuovo tempo.

Capitai nel suo paese con i miei nonni, cercavamo una casa in affitto per l'intero anno, dove passare festività e vacanze.Voldomino, una piccola provincia sulle alture di Luino.Luogo dove la pietra vinceva sul cemento, gli anziani tiravano la carta buona col sorso di vino giusto.E i ragazzini spendevano il tempo a giro di pedali e corse giù al torrente.Fu facile stringere amicizia presto, imparare il filo rosso che univa tutti quanti i nomi.E scegliere proprio quell'appartamento al secondo piano, nello stesso cortile di Marinella.

Era bello guardarla, la mattina.Io affacciata al balcone, appena uscita dal sonno.Lei segnata in faccia dalla cicatrice di chi non chiude occhio e si sfascia i muscoli della faccia, nello sforzo di calare le palpebre.Accendeva sigarette anzichè parlare, il suo dire di giorno era risucchio di tabacco tra le labbra.Poppata solitaria alla ricerca di una goccia di latte, di un residuo di madre, nel bacio secco della nicotina.La sua era voce notturna, guaito strisciato contro la buccia d'arancia dell'intonaco bianco, urlo strofinato ai muri, screpolato fino all'osso nel tentativo di prendere fuoco.Di notte Marinella gridava un canto, voleva accendersi nel buio, essere luce quando tutti spengono le lampadine e staccano la schiarita.Allora lei cominciava la sua resistenza.Apriva la porta di casa, in mano una bottiglia di birra puntata al cielo, lancia pronta a infilzare le cosce degli angeli, ad arrostirne la presunta grazia.Piume colorate attorno al collo, danzava la volontà di un cigno selvaggio, il suo diritto a sollevare il collo fino al ballatoio delle bestie addomesticate.Si guadagnava il centro del cortile, da abusiva otteneva domicilio di un tombino.E lì prendeva a danzare una bellezza furiosa e disperata.Il corpo scosso da un sisma ripetuto e breve, sonaglio di serpente dentro le anche, incantava gli umori della notte, il sudore della luna.Senza mai uscire dal contorno del suo tombino, nella reclusione di una ruggine quadrata, Marinella toccava la libertà.All'ora tardissima del sonno sodo, lei ci spaccava i gusci per morderci i sogni.Noi tutti uscivamo a vedere.Finestre, balconi.Di colpo nelle case affacciate al cortile spiccava il giorno.Col sole illecito di Marinella.

Ma alla gente non piaceva spartire la propria razione di sogni. Nessuno disposto ad accettare una crepa aperta nel guscio liscio e perfetto del sonno.Tutti parevano gelosi di un piatto da gustare in solitudine.

La fame di una pazza è fatto che non ci riguarda.Sembrava questo il loro pensiero, quando a imposte chiuse, imprecavano contro Marinella la matta, Marinella l'ubriacona, Marinella preghiamo Dio che se la riprenda su nel cielo.E Marinella convinta a terra. Viva e forte nel suo danzare.Dopo in silenzio però, diminuita di gesti, azzerata di voce.Nel rispetto del digiuno imposto.Ma mai stanca di aspettare il boccone, il tozzo fumante di qualche sogno.

Spiavo di nascosto la sua speranza, da dietro le persiane della camera.La vedevo continuare.Muovere l'ombra di una danza, sopra l'occhio spalancato della fogna.L'unico che restava aperto.Il solo che restava a guardare.

Gli adulti non volevano che noi bambini ci fermassimo a parlare con lei.Se ce la fossimo trovata davanti, bisognava fare il giro largo, segnare arco teso a terra. Veniva così impartita la prima nozione di guerra.Individuare il nemico e disporsi all'attacco.
Pronti a scagliare la freccia.Senza capire il perchè del nemico nè il motivo dell'attacco.
Quando Marinella capitava accanto a noi, o noi accanto a lei, suo primo pensiero era correre in casa, prendere la ciotola di caramelle e invitarci a scegliere quella che più ci andava.Oppure tutte.Tutte quante le caramelle assieme.A lei non importava restare con un vuoto in mano.A reggere quello ci avrebbe pensato lo spessore dei calli.Il durone dell'abitudine.Le bastava stare con noi.Esserci.Compresa e inclusa nel diritto di esistere.Anche da matta, anche da ubriaca.Anche da tutto ciò che sta prima, nel mezzo e dopo le due categorie.

Esserci da Marinella, insomma.Tutto qua.Questo le sarebbe bastato.Nemmeno pretendeva di morderli i nostri sogni.In quegli attimi l'avrebbe saziata uno stare ferma.Un passo da noi.A contemplare il miracolo della sua mentina sciolta sotto le nostre lingue.Considerare nemico una donna così, è atto che di vergogna abbonda. Marcare ai suoi piedi un segno di guerra, è atto che nella vergogna affonda.E io ancora oggi trattengo il fiato per non affogarci dentro, quando ripenso ai miei rifiuti di bambina obbediente.Davanti alle mentine di Marinella.Che ora forse starà danzando, dentro la sua storia vera.Sopra un cielo che mi auguro sia più grande e accogliente di un tombino.

CONSOLATA

Troppo rumore.  Spegnete quella radio. Sono seviziata dagli strilli. Accompagna tua sorella in bagno. Senti quanto urla. Fàlla smettere. Non lo so come. Prendi il succhiotto e ficcaglielo in bocca. Mi seviziano, tutti i giorni. A frustate mi pigliano. Ho le piaghe del martire fin dentro le ossa. Fratture al sistema nervoso. Slogature alla coscienza. Croste alla pazienza. Dico io, ma ci si può ridurre  così? Guardatemi, i capelli stinti, secchi come paglia, che scoppia un incendio pure se gli getti sopra un cerino spento, la pelle screpolata che non ne posso più di darmi la crema, tanto non serve a niente, il grasso di foca ci vuole, il sudore di balena, perché mi tornino morbide, lisce come il pavimento dopo la cera. Allora, ancora lì a tirare lo sciacquone siete? E' la terza volta che questo scroscio d'acqua mi travolge le meningi, mi trema il pensiero, mi sculetta la testa... Colpa del fracasso, del rumore maledetto. Di voi due mocciosi, che se non uscite da quel bagno, subito adesso, vi spedisco a letto con la buonanotte del Diavolo anziché quella del buon Dio.

Sì, lo so, dovrei farmi le unghie, saranno dieci anni che non ci passo il graffio di una lima, il lusso di uno smalto. E pensare che l'altro giorno al mercato ce n'erano di tanto carini. Blu, viola, rossi coi lustrini, e mi sarei fermata, Madonna della Concessione, se avessi avuto il permesso di tardare qualche istante, di fregarmene del ferro da stiro, dell'asse da sudore, della pila di camicie, maglioni, calze e calzoni. Ma poi chi la sente quella pazza screanzata, che gira nuda per la casa con patacche d'oro addosso, mentre la bestia da soma qua presente si strizza il fiato nel grembiule e strofina fatica addosso a una piastra rovente? Che quella mica ci sente, se il tram non è passato, se Andrea si è ammalato o è capitato il traffico bloccato dal corteo dei manifestanti. No, lei di ragioni non ne sente. Ogni giorno, mi tocca di essere puntuale, alle otto di mattina, Signorsì, presente! E quella volta che prese a nevicare, e il ghiaccio si mise in testa di strapparmi una caduta da sotto i piedi? Mi alzai tutta sola, senza lo straccio di una mano, con la caviglia gonfia da parere un melone, e tutta sola zoppicai fino a casa di quella pazza rotta in cuore. Alle otto e quindici arrivai. Signorsì, presente, un quarto d'oro di ritardo ma mai assente. Brutta baldracca, che Dio mi perdoni, quel giorno mi abbassò la tariffa. Due euro in meno all’ora e una caviglia doppia guadagnai, bella consolazione! Madonna della Giustizia, ma che facevi allora? Tenevi la bilancia rotta? Un divorzio di pesi e di misure? 

Mi seviziano. Sono la cavia dei loro capricci. Manca solo una gabbia con la ruota dentro e poi incomincio a girare, che magari così è meglio.Girare attorno, sempre uguale, senza la briga di una partenza, l'ansia di un arrivo. Girare tanto da smarrire il giro, da credere di andare in linea retta, sulla strada dritta, dove non c'è salita che t'ammazza il fiato né curva a illuderti che se la superi, dopo, qualcosa sarà diverso, qualcosa sarà cambiato.
Via di qua, che la mamma è spenta, c'ha l'interruttore girato, non può ascoltare, non ha corrente per parlare. E spegnete quella radio! Fracasso, balordo cocciuto fracasso, che spende rumore, che c'ha le mani bucate e se ne frega se io ho le tasche vuote, e un conto corrente che pure lui strilla, mi sevizia e piange miseria. Sant'Antonio dei poveri disperati! Non che ti venga in mente di addolcirmi il risveglio, che ne so, magari una mattina di primavera, quando canta il canarino, e farmi trovare un biglietto della lotteria sotto il cuscino? Che sia vincente, si capisce, altrimenti puoi tornartene al creatore e scordarti che esisto. Perchè va bene il danno, la spina della malasorte, ma pure il chiodo della beffa no, quello se lo tenga pure Gesù Cristo dentro i palmi. Che Dio mi perdoni, e pensare che prima di tirarmi un velo bianco appresso all'altare, avevo il sogno di diventare un'estetista, e dormivo con il volantino che ne pubblicizzava il corso lì, bello piegato sul mio comodino. Avrei disegnato sopracciglia da far gonfiare il petto agli occhi,  fatto unghie che se le vedevi pregavi il graffio addosso, massaggiato schiene da ubriacare la spina dorsale con tutte le vertebre assieme. Invece mi ritrovai con la sorpresa di un marito ubriaco, aveva ancora il sonno negli occhi quando la mattina usciva  di casa col desiderio del prosecco o del caffè corretto. A zonzo tutto il giorno se ne andava, sbatteva la tristezza addosso ai bicchieri, con la speranza di trovare un mezzo sorriso attaccato al fondo che la buttasse via, quella sua tristezza, quella sua ingrata compagnia. Madonna delle compassioni, neppure la pietà di un bacio sobrio la prima notte di nozze, ho potuto trovare. Hai voglia di sperare nel sogno di rifare mani piedi e benedire il volantino che dal comodino finì presto nel bidone dell’immondizia, hai forza di credere in qualcosa di meglio che non fosse la preghiera di tirare presto sera. Come se non bastasse il peso da portarmi sulla schiena, si aggiunse pure quello dentro la pancia, due mesi dopo la promessa davanti all’altare, rimasi incinta e arrivò Andrea, Bontà del Signore, un figlio è sempre una benedizione, ma quando non tieni i soldi nemmeno per comprarti l’acqua santa, dove la trovi la spinta di farti il segno della croce di fronte a una creatura? All’arrivo di Sara, poi,  faticai anche a credere nella fede buona del Paradiso, quasi sembrava che la mia pancia fosse il ripostiglio di chissà quale castigo divino. Ma dico io, non poteva venirvi in mente l’idea di un deposito più grande lassù, dove dare vitto e alloggio a tutte 'ste anime in esubero? Comodo spedirle quaggiù, nude, sperdute, indifese, senza niente tranne il fastidio di uno strillo, senza un vitalizio che garantisca almeno un pezzo di pane e un riparo sopra la testa. Noi dobbiamo pensarci, con i soldi che non abbiamo, a comprare latte, pappe e pannolini. Anche i sonagli adesso, ma non siete troppo cresciuti per quei giochi da neonati? Rumore, che scuote, martella, a percosse in cuore mi piglia, se respiro sento dolore, prendo aria e perdo ragione, mi sale l’ematoma su nel naso, mi sbatte il pugno contro il polmone. Sono vent’anni che sgobbo, che pulisco pavimenti con il marmo rosa, che mi verrebbe la tentazione di sollevare una mattonella tanto che vale ed è preziosa, e scappare via, in un estero lontano, con la mia mattonella sottobraccio, da vendere sottobanco a qualche capo cantiere, e tirarmi su il gruzzolo di un’altra vita, mica nel lusso s’intende, è sufficiente lo spazio di un monolocale, magari la cortesia di un balconcino, se poi ci fosse anche l’affaccio sul mare…Sì, non sarebbe male.

Madonna delle consolazioni, qua niente si decide a succedere, tutto si convince a restare, ben piantato nell’indecenza, fino alle ginocchia nella noncuranza, di nuovo càpita solo una sbronza in ritardo, il marito che giura astinenza per la durata di una mattina, e poi il pomeriggio si svuota il fiasco della promessa, in un solo colpo, tutto d’un fiato. Oppure è la volta dei reumatismi, che non contenti delle mani, adesso si sono presi pure i polsi, arrivano senza bussare, da ospiti educati male, con la pretesa di una buona accoglienza. E intanto sento le fitte dell’inferno, qui, dove c’è l’ingorgo delle vene e un bianco di neve sulla pelle. Lèvati quelle scarpe, Sara, che ti entra il diavolo dentro i piedi!Guarda che cadi sopra quei tacchi, vedi di rompermi l’unico paio della festa, che poi stai fresca, Saaara! Rumore, maledetto, dannato, rimbomba, pesta, batte con la furia della grandine, e squittisce, sì, fa il richiamo del topo, mi entra nella tubatura del cervello, intasa, strozza strozza da impazzire… E poi i pensieri, che mi saltano da una sponda all’altra della testa, come ranocchi disperati, e qualcuno salta dentro lo stagno delle ansie, e aumenta, gonfio e grasso a dismisura, che prima o poi mi esplode nel petto… Il mio petto, prima di allattare i figli tenevo una meraviglia di seni, generosi e sodi, da spenderci sopra i sogni più belli, vedeste gli uomini come ci gettavano gli occhi, parevano monetine tirate dentro il pozzo, con appresso il desiderio del mio corpo messo nel letto… I miei seni… anche loro ho dovuto lasciare, stornare dal conto già magro delle cose buone, sì perché tra il succhiare dei figli e lo sgobbare per la pagnotta, mi sono scesi di forza, calati di piacere, me li ritrovo così stanchi che per reggerne la volontà sono costretta a portare l’imbottitura con le stecche. E quel porco, Dio me lo conceda, quel suino di mio marito, che non gli basta rotolare nel fango della grappa, nello sterco del vino, lui che fa? Va a caccia di mammelle fresche, di carne giovane da strapazzarsi addosso, nella coscienza neanche il segno di uno scrupolo, il talento di un ritegno… a pensarmi qui, fiacca da fare pena, ogni giorno più vecchia, che mi pare di compiere più anni che respiri.

Ma stasera vi sistemo tutti, stasera vi arrangiate la cena con la fantasia vostra, anche se è Domenica, anche se per tutta la settimana vi siete arrotolati la lingua dentro al pensiero del mio timballo di melanzane, stasera vi tocca usare l’invenzione per saziare la pancia. Sì, perché io mi nascondo le mani dentro le maniche del maglione, e di far andare le braccia davanti ai fornelli non ci penso proprio. E mentre voi sarete lì,  a rovistare nel frigo in cerca di qualcosa che faccia da rimedio all’asciutto delle bocche, io me ne andrò in bagno, metterò i bigodini ai capelli, un po’ di rosso alle labbra, un tocco di vita alle guance e griderò allo specchio il mio diritto di esistere. Sant’Antonio dei martiri, sono stufa di starmene sempre una spanna sotto la vita, che va bene non essere una spilungona, non competere con quelli che arrivano all’ultimo ripiano dell’armadio senza l’appoggio di uno sgabello, ma un metro e sessanta di altezza sarà pure sufficiente a toccare, se non i fianchi, almeno le ginocchia di 'sta esistenza… o no? E senti, senti questo stridere di diavolo che si rade la faccia, questo ragliare d’asino che mi sfonda le orecchie… Sevizia di timpano, fracasso di ragione, che mi verrebbe la fame di una sordità,ma non di passaggio, che sia permanente, che si meriti la pensione dell’invalidità, così è la volta buona che posso campare con la decenza di un sorriso a fine mese, con un cerchio rosso sul calendario che non sia il girone di un’uscita ma il buco di un’entrata! Andrea, sei tu? Sei tu che continui con questo strazio del gesso sulla lavagna? Ma se ti piace tanto disegnare, usa la maledetta pace di una matita, demonio che sei… Demonio d’una creatura, moccioso buono alla follia… Che Dio mi assolva, mi perdoni e mi comprenda, ma qui mi seviziano, e si divertono a ogni nuova piaga che mi cresce addosso. Ma io non aspetto la sera, io ci vado subito dentro il bagno, a cercare il fiato della giovinezza, il soffio di un sollievo, e poi mi metto l’abito delle occasioni, quello con l’orgoglio del pizzo e del velluto, che la sarta quasi piangeva quando me l’ha venduto. E così rifatta prendo la strada, mi concedo la grazia di una libera uscita, tanto bella che il marciapiede dovrà scrollarsi di dosso carte e mozziconi per rendere omaggio ai miei piedi. E mio marito, al suo ritorno, troverà il saluto di un tavolo vuoto, il benvenuto di un digiuno assicurato, l’assalto di lacrime delle due creature, lacrime buone da riempire la pentola e farci il brodo, se sarà tanto affamato… Ecco, si fa presto, due bigodini e sulla testa c’è già il prestigio, un po’ di rossetto e alle labbra torna l’onore, manca solo il vestito. Ci entro piano, così, un po’ alla volta, come si fa nel mare… prima i piedi, l’assaggio delle punte, poi l’azzardo delle caviglie, e dai polpacci in su è tutto un crescere di confidenza, perché occorre abituarsi, alla temperatura della libertà…Madonna dei miracoli, guarda qua… potrei fare non dico la protagonista ma di certo una comparsa in quella telenovela che danno col rintocco del mezzogiorno, che tra l’acqua che bolle, il sugo che cuoce e Sara che strilla, ogni tanto riesco anche a capirci qualcosa della storia… E quella strilla, ancora e sempre m’abbaglia il giudizio, mi straccia la ragione, che nella testa tengo una discarica di crucci… Rumore, fracasso, sevizia… Scuote, batte, picchia… trema di tempie, scrolla di nervi, graffia di cuore… Devo uscire, il corridoio, la porta…ma perché già qui? Perché  subito, davanti… E dov’è la maniglia…perché l’avete tolta… e cos’è tutto questo ferro che sale e che scende e che sbarra… e poi i passi, tanti passi, col rimbombo, col tuono, lo sparo… cos’è quella pistola attaccata alla cinghia, e le chiavi, quante chiavi, sbattono, picchia, scuote, trema… Rumore, sevizia… Ma cos’avete fatto… razza di rotti nell’anima… Che Dio mi perdoni. Anzi, no, gli levo l’imbroglio al Signore, faccio da sola, Io mi assolvo dai miei peccati, nel nome della libertà, della giustizia e della ragione. E adesso fatemi uscire, per l’amor dell’Inferno, fatemi andare.