lunedì 28 novembre 2011

La stella nera.


Stropiccio gli alfabeti, strizzo le parole fino a farne mille pieghe,
le invecchio all’ultima ruga, dove la voce s’accuccia solo a dire il vero,
e il fiato per mentire non trova spazio,
e lo spazio per il fiato si è fatto smilzo,
ossicino ultimo della confessione, coda magra di colpi nuovi.
E  sputano il sasso dalla gola, queste lettere piegate alla gobba, schiacciate alla terra,
rimettono il reperto del cielo, 
la stella nera, il cruccio del gregge,
stella caduta per mancanza di pastore.
Quella che scombina gli zodiaci e tira matta la sorte. 
E’ l’ingoio dei forzati al suolo, il rigurgito che nessuno vuole in bocca,
tranne quando la parola muore.
E per vivere non serve più catena di segni nè illusioni.

venerdì 25 novembre 2011

Al sud della notte

Al sud della notte un'infiorata di stelle,
ghirlande sciupate dall'orgia dei santi,
braghe calate e preghiere all'aria,
il frate che cade in mezzo alla piazza,
pesce sventrato a fargli da rete,
triglia e sarda sotto la chiappa.
Al sud della notte un ragazzo sghignazza,
fa il verso del mare quando cova la furia,
schiuma birra da un boccale di scoglio,
impenna il motore per sedurre la riva,
lo chiamano scemo quando rimorchia la sabbia
(ma a lui piace quel seno di terra).
Al sud della notte si mangia pane e porchetta,
la Madonna s'ingrassa e la teca va in pezzi,
lardo celeste, piedi nudi e vetri rotti
(Maria il fachiro che più se la spassa)
Al sud della notte la vita è chiasso di nave,
grido d'attracco al porto di un occhio
(che adesso si chiude).

giovedì 24 novembre 2011

Il naso di Pinocchio


Scoppia la bottiglia dell’infanzia,
e il turacciolo di un latte amaro colpisce
in pieno la mia fronte.
Resto sveglia nel bernoccolo di un seno fallito,
il suo dare scaduto mi spunta in mezzo agli occhi,
cresce assieme alle verità perdute, ai pasti saltati.
E’ il naso di Pinocchio che volevano farmi mangiare.
Ma io  non sono da burattino, non vivo per legno e bugia.
Datemi carne, e la pasta lavorata con due mani di madre,
voglio saziarmi tra la destra e la sinistra di chi mi ha messo al mondo.
Scrollate la tovaglia e frullatemi tutte le briciole cadute,
che si riempia il piatto di amore omogeneizzato,
fa niente se fa crosta o scoppia in bolla.
Va bene tutto, quando c’è fame.

domenica 20 novembre 2011

Raccoglietemi col pane.


Buttata nell’olio vecchio, girata tutta negli avanzi delle estreme unzioni, io chiusa nella pastella dell’ultimo respiro,
fritta dentro la confessione di qualcuno che non ha più niente da tenere.
Qualcuno che se ne deve andare rachitico nel cielo, e scarica carne per volare.
Io saltata con lo schizzo del condimento,
ricaduta in pentola per nostalgia di ghisa che tiene e brucia. 
Mi ustiono a furia di stare al mondo, di stare al fornello di una cucina, 
al fuoco acceso di una famiglia che scorda il timer e mangia cenere.
Io servita nel piatto, 
ormai scarto di sigaretta, rovescio d’urna, polvere non più commestibile. Fate che io sia intingolo, raccoglietemi col pane.
Che magari vi rinasco in gola. Viva nel colpo di tosse. 
Più vera di una parola.

sabato 19 novembre 2011

Castelli in terra.

Giorni di gesti sgretolati,
sabbia e pietrisco dentro le ossa,
a seminare polveri e accumulare castelli in terra.
E ogni tanto l'ondata dell'attimo si porta via la torre o il ponte levatoio e di un abbraccio resta maceria. Allora mi siedo tra gli avanzi e comincio a dividere le pietruzze del gesto dai sassi dell'intenzione,
ne faccio due montagnole che si guardano,
una di fronte all'altra, stature uguali, geometrie gemelle.
Triangoli fuori e straniere dentro.
Una forma clandestina nel cuore, non si sa da dove venga, nè a quale incastro sia diretta.
Gesto e intenzione, due montagnole che si guardano.Troppo esuli per il coraggio di unirsi a cima.
E prendere residenza in vetta.

mercoledì 16 novembre 2011

Nera tra le rondini


Sbucata fuori dal nido, spennata donna col becco aperto,
e il verme crudo a colazione.
Tengo il vestito straccio di un guscio rotto,
zingara covata da una carovana di nuvole, spinta fuori a scroscio d’acquazzone.
Figlia di bambagia bianca
(mia madre struccata in viso, tutta latte la sua pelle)
venuta al mondo per singhiozzo, poppata svelta e fame troppa
( mia madre ciliegia in bocca,  tutte rosse le sue labbra)
sbavata in terra e rimarcata in cielo,
vivo nera tra le rondini.
Sono un tratto di carbone, la sgommata di un uovo che dopo la schiusa sterza.
E all’incrocio tra asfalto e vento, sceglie il volo.


martedì 15 novembre 2011

Nottesanta.


Incasso la notte, un pugilato di stelle nel ventre,
guantoni cadenti per costola e milza,
un Cristo in fasce scambia il mio livido per la sua culla,
nel torace tengo capanna
e una Betlemme in processione risale.
Dall’inguine allo sterno,
calca e folla sul mio osso.
Respiro il peso del pastorello,
la suola che mi calpesta,
cuoio e fango diretti a Dio.
Sono il ponte per l’Aldilà,
picchiano forte sul mio corpo tutti i sandali della terra,
alluci nudi a indicare la via.
Terza costola e ci si ferma. Un coro di calci la sfonda.
L’Alelluia dei piedi al Salvatore che strilla.
La sua nascita è la mia frattura.

martedì 8 novembre 2011

Noi, che non ci siamo mai visti


Il popolo ha battuto la testa, ematoma interno,
nel cranio il capriccio di una rosa avvizzita, grugno di petali in fronte,
l’uomo suda il cattivo odore dell’acqua scarsa, del fiore in secca. 
Se qualcuno ragiona, tappiamoci il naso, le narici nella morsa di una molletta e il puzzo del senno scompare.
Meglio calare le braghe, buttarsi nudi per la strada, le crudità all’aria e lo stracotto del pensiero in pasto ai passeri, in bocca al cielo.
Che si strafoghi il sole e s’ingozzi la luna, per indigestione crepi il giorno e la notte lo sotterri. Niente angeli, soltanto allegri becchini a custodirci le quotidiane azioni. Andremo a polsi legati, al riparo da ogni fare, 
andremo nella disoccupazione dei matti,
tutti scansafatiche ad acchiappare gli occhi degli altri, come fossero farfalle da collezione. 
Colla agli sguardi, a riempire gli album e sfogliarci in eterno.
Noi, che non ci siamo mai visti.

sabato 5 novembre 2011

Acquabestia


Suda duro, il giorno, strizza fatica sotto le ascelle,
colpi bassi d’acqua bestia,
a picchiarmi alluvione nel ventre,
mare rotto che spaventa il pianto.
Ero incinta di un distacco, la pancia mossa per abbandono.
Nel sonoro di pugnetti e calci,
già strillava il mio addio.
Che adesso tace.
E piano affoga.



giovedì 3 novembre 2011

Ladra da carnevale


M’illudo bandito, saccheggio le tasche degli altri,
mano dentro spinta piano,
che la mia pelle è velina, in controluce scompare.
Levo il pugno dal fodero, dita in polvere nel sole.
Lascio indizio di cenere, come tabacco sul pantalone.
Per una fumata distratta non mi si può condannare.
Mi credono innocente e cascano in errore.
Sono una ladra da carnevale,
la trombetta mi fischia in bocca
e la stella mi fila in faccia,
quando scopro che il mio colpo è andato male.
Apro la mano e scattano bugie. 
Scherzetti a molla per una refurtiva che si aspettava verità.

mercoledì 2 novembre 2011

Sèraphine de Senlis- pittrice


Era piccola, il corpo di una pannocchia che fa le grinze ma non si sfoglia, teneva grani di luce sotto la pelle, un addobbo di Natale acceso tutto l’anno. 
Il bambino Gesù le scalciava dentro gli occhi e lei ragliava nel respiro per scaldargli sonno e veglia. Sèraphine faceva l’asinello per devozione al cielo, era bestia da soma per servitù alla terra. Donna di strofinaccio nella casa dei padroni ricchi, trovò ispirazione nella macchia sul pavimento, nel grasso del tegame, in tutto lo sporco che suscita smorfia, nell’abbandono che alla gente crea lo schifo.
Prese a dipingere con gli scarti degli altri, un vino scaduto divenne il rosso di un fiore, petali degni di una sbronza d’annale.
Spendeva spiccioli per comprarsi le tele, ogni goccia di sudore era iuta guadagnata, si seccava i muscoli per la misura di un metro x due. 
Le farfalle di Dio le sbattevano le ali in gola, Sèraphine cantava il baccano di voli celesti, spaccava il timpano ai diavoli col fruscio del suo pennello.
Piantava semi nel buio di una mansarda, la sua passione era l’unico sole capace di farli crescere.
A singhiozzi di fede vangava la notte, e una stanza stretta si riempiva di stelle larghe a sufficienza da farci stare in ognuna un fiore. 
Troppo sola per farsi sentire, Sèraphine parlava niente, diceva tutto con il colore, per esistere poteva solo farsi vedere, rovesciare la serra del cuore sopra il campo del mondo. E quanti graffi al costato, quelle spine versate giù in terra, quelle rose buttate fuori dal petto, munte tanto da sfinire i seni. Possiamo vedere un latte che strilla, nel bianco delle sfumature, un bimbo che sbava, nella schiuma di un azzurro rappreso. 
Sèraphine abbracciava gli alberi, sposa del tronco e madre della corteccia, trovava famiglia nel sottosuolo di una radice che s’alza, cocciuta e forte al cielo.
Dedicò il suo ultimo respiro alla quercia d’infanzia. In una giornata d’aria ferma, offrì colpo di vento alle foglie. E segno di vita ai rami.

La voce rotta

Gioco con i silenzi, me li rigiro sul naso come la foca con la palla,
annuso le acrobazie di parole che non toccano suono nè terra,
le narici mi si riempiono di volteggi, equilibri precari che tappano il respiro.
Ho un raffreddore da circo, bronchi intasati da un'attesa muta, tutta trapezio e salto mortale.
Il mio starnuto provoca lo schianto di ciò che tace, dall'alto della corda casca la parola.
Sillabe sparse, ossa rotte che fanno rumore.
Mi chino a terra, orecchio al suolo.
La frattura multipla comincia a dire.
Ascolto la storia di una voce rotta, e scrivo per aggiustarla.

martedì 1 novembre 2011

Illusi maestri

Fa il verso della rana, la memoria,
gracchia nello stagno della testa e assorda il presente.
Così l'oggi  rintronato e sordo si ricovera all'ospizio e la ciurma dei tanti ieri s'iscrive all'asilo, pronta a cantare a squarciagola la filastrocca dei nostri errori.
In fila per due, ci passano inananzi le occasioni perdute, scolarette in grembiule bianco,
tutte a bacchettare noi altri, illusi maestri.