martedì 30 agosto 2011

Sul ruolo dello scrittore-distruggere le padelle e imboccare a crudo.

Camminiamo con le tasche piene di idoli, ce li cacciano di nascosto dentro le fodere dei calzoni, lo fanno con la mano del ladro rivoluzionario, quello che anzichè compiere il crimine con il furto, lo realizza con l'offerta.
Il sistema ci costringe a subire torti travestiti da doni, togliendoci la possibilità del rifiuto.
Dobbiamo allora caricare il No sottratto, riempirlo con i monili del bello, il vestiario del vero, farlo monumento impossibile da sollevare, protesta che a vederla ci si inginocchia presi dallo stupore.
Così saremo pronti ad accorgerci che esite quel No, saremo pronti a difenderlo dagli agguati, a proteggerlo dalle imboscate. E lui allora si farà padre, a figliare il  Sì che andiamo cercando.

Oggi la bocca di Artoud verrebbe tappata da una calca di mille mani, il suo grido finirebbe intrappolato tra i gemelli d'oro dei polsini bianchi, oggi più di allora la verità offerta cruda indegna il morso e aizza il conato.Si preferisce farne fettine panate. Olio, pangrattato e una frittura tosta a imbrogliare il gusto.
Sta a noi, distruggere le padelle e imboccare a crudo.
Insistere comunque, nonostante lo spavento delle bocche e la rivolta degli stomaci.

lunedì 29 agosto 2011

Corpoarmato.


Investo i miei passi, a corpo armato mi calpesto le orme. 
Cingoli ai piedi, riduco a ossa rotte il cammino andato.
Pirata della strada, occhio bendato e mano monca, 
assalto le rotte già segnate.
In miseria di stracci lascio gli anni perduti.
Ladra al passato, fuggiasca al presente,
la mia vita da ricercata.
Una taglia sopra la testa
e la faccia appesa ai muri.

domenica 28 agosto 2011

La mimetica della ragione



Dal quartier generale del corpo,
ripasso i comandi da impartire ai sensi.
Ma loro sono soldati fuori legge,
bambini arruolati sotto banco.
Cedono all’innocenza dell’età minore e disertano la guerra.
Scappano dal forte, cuccioli esuli e randagi.
Salvi per disubbidienza alla divisa della testa,
e alla mimetica della ragione.

sabato 27 agosto 2011

Mal che vada, santi.

Quando passiamo di data e scadiamo al mondo,
noi tutti ci stringiamo nell'infanzia, genuflessi davanti a un altare di seni gonfiati a latte, le bocche strette a suggere preghiera dal capezzolo crocefisso, beviamo il chiodo, trinchiamo la piaga, ci ubriachiamo di martirio, liquore buono a convincerci che, a fine poppata, non saremo più orfani....E mal che vada, ci faranno santi.

venerdì 26 agosto 2011

Sul movimento della parola

Uno dei movimenti feroci a cui il mio corpo si offre per buttare parola al mondo, è la slogatura massima degli equilibri.
Un rovescio di posture abituali m'impianta il burattino folle nel midollo, giunture e ossa se ne vanno sballottate da fili che non governo, si preparano al lancio, alla gettata in avanti, spiccano il salto prima che io decida la spinta. Come lenze scappate alla canna, si dimenano in volteggi di danza. In scodate feline nell'aria, azzardano la pesca di un alfabeto che guizza dall'abisso al cielo.

Raccontiamoci  le santissime  crudeltà, i biglietti d'andata obliterati a grido e sangue, documenti necessari a mandarci là, dove la parola si sveglia e sbuca fuori dal lenzuolo della carne.

E penso a mia nonna, allle sue spalle curve per carico massimo di giganti accolti sopra la schiena.
Penso a lei, piccina a furia di limarsi centimetri dalle ossa e fare spazio alla tonnellata di guai altrui.
Lei schiacciata in sacrificio, ridotta sfoglia per amore, lei che riusciva sempre a tirarsi lunga, gonfiarsi altissima oltre il sole...Questo suo stesso sforzo di lievito cocciuto, deve compiere la parola.







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venerdì 19 agosto 2011

ASSUNTA

Assunta voleva che l'orizzonte cadesse sulle ginocchia, si aspettava la genuflessione del cielo in risposta alla supplica del suo sguardo.
Lei se ne stava lì, tra i covoni di grano, nel cartoccio di una solitudine cacciata dentro il forno delle ore. L'assenza le cuoceva addosso, mentre gli occhi restavano crudi, fuggiti di padella e senno.Una visione al carpaccio, servita fredda alle stelle.
Si toccava la pancia, con le dita correva attorno alla cupola che spuntava da sotto la pelle.
Erano passati otto mesi ormai.Già si sentiva il calcio nel ventre, lo spillo di un calcagno pronto a imbastirsi la vita. Da lì a poco sarebbe arrivato il graffio sonoro, l'unghiata acustica del primo pianto.
Assunta stringe il pugno, lo appoggia in mezzo alle gambe.Batte il ritmo di un singhiozzo, l'anticipo di uno strillo che già stiracchia le corde vocali e si prepara alla sveglia.

Dormi ancora, ti attacco il sonno alla prolunga e lo collego alla centrale elettrica della luna. Tu non puoi vederla, ma questa notte lei è alta, tutta tonda come la pancia che mi hai fatto crescere.
Abbiamo abbastanza corrente da tirare alla lunga i sogni, spegni la premura di aprire gli occhi.
Risparmia l'energia per fare luce dove stanno i morti, o quelli uguali a te che ancora non sono nati.
Se ti butti al mondo carichi il mio tuffo di troppo peso e mi costringi a pestare le speranze sulla pietra aguzza del fondale.A che ti serve una madre con la fronte bucata e la tempia guasta, che poi il pensiero sgocciola fuori e la mia zucca resta vuota.Una bolla bianca attaccata al collo, aria e sapone da soffiare lontano.
A colpi di fiato dovresti spingermi accanto ai fornelli, chiedermi di scaldarti il latte nel pentolino, quando la mia mammella andrà in bancarotta. Ho poche monete dentro il petto, la carestia mi minaccia il cuore.
Su mio padre non posso contare.Gli ho detto di te e lui si è piegato a sistemare la mangiatoia delle bestie.Paglia e fieno tra le mani, ha dato fuoco al silenzio.Sulla faccia una combustione di smorfie e in bocca la fiamma di un Vattene da qui.Non ti stupire, tuo nonno è uno consacrato al badile, abituato a dedicare carezze al bastone di una vanga, a sciogliere baci nel sudore e poi versarli sopra i campi.Così può irrigare l’orto, condire i pomodori e l'insalata con l'unica specie d’more che gli bagna la fronte e gli inzuppa le ascelle.
Sono l'ultima di otto sorelle, la figlia di coda, quella che si rizza soltanto per marcare il suolo con la frignata dell'intestino, il lamento sozzo della pancia.Puzzo di scarto, papà non me lo caccia il naso dentro al cuore.
Lo vedi che non vale la pena uscire da quel manicotto di cielo che ti scalda la notte? Strofinati le mani contro la lana nera che mi pizzica la pancia, infiammati i palmi con i riccioli di pecore tosate e sogni caduti, bruciati i pugni e pesta il gelo di questo inverno.Se credi che nascere sia un'estate, allora ti sbagli.
Suor Vittoria mi ha sentita, mentre ti tenevo in bocca, lì davanti al nonno.E sbriciolavo tra le labbra tutta la paura del tuo arrivo.
Ha visto che lui non ha esitato a cacciarmi, ha visto la forca della sua indifferenza infilzarmi le suppliche e ridurre a colabrodo la mia preghiera. Vuole che io la segua in convento, mi ritiri al lavoro forzato di tre messe e sei orazioni al giorno.Così levo mio padre dall'imbroglio del disonore e riservo a stessa l'inganno di anima pia e fedele.Tu finiresti come un boccone in gola all'affamato, trangugiato a furia da abbracci sconosciuti, fatto a pezzi contro un seno che magari ti metterà anche caviale dentro il latte, ma senza chiederti mai se a te piace il suo sapore.
Dormi ancora, dammi retta.Che io non mi lascerò battere i denti dallo scalpello dei salmi, per versarmi poi pastina e brodo sulle gengive nude. E con la bocca metà vecchia e metà poppante, succhiare i resti di Dio dalla cera di candele spente.
Chiudi forte quegli occhi, vedrai le note di una canzone.E il buio canterà per te.




Assunta è distesa ora, il suo corpo è un balenottero spiaggiato nel grano.Sfiata memoria d’abisso, spruzza al cielo il principio e la fine del mare.Tra le cosce, il fragore dell’ultima onda. Silenzio.E poi il chiasso del primo pianto.
Fu Suor Vittoria  a trovarla, quella donna infagottata di favola e disgrazia, avvolta nel piumone di una speranza che ormai perdeva piume da tutte le parti.Assunta partorì sola, nello sbrego di un urlo che risucchiò il sole dentro la sua pancia di luna piena.La campagna bergamasca cacciava ululati di lupa alla vita, mentre gli anni ’50 facevano branco attorno al fuoco acceso del rock’n roll.

GINO

Virginio era Gino per gli altri.Nome stretto dentro due sillabe, tenuto a tenaglia tra lingua e palato.Lo cavavi fuori svelto, quel nomignolo di tappo smilzo, spinto nel collo largo di bottiglia.

La gente lo stappava nel grido ripetuto, lanciato da un lato all'altro del cortile.
Gino turacciolo e poi pallone.Sbalzato fuori da un vetro, palleggiato contro la parete del garage che per lui era tana privata.Scappatoia dove la fuga si rimboccava la coperta, i guai si calcavano un berretto in testa.

E buonanotte realtà.Sogni d'oro al turno in fabbrica quando il gallo russa ancora.
Operaio specializzato, Gino teneva il privilegio della fiamma ossidrica in mezzo a uomini rassegnati al cerino, alla scintilla dello zolfanello che brucia in fretta il suo destino.Andava fiero di essere saldatore, uomo capace di fare un pezzo intero da due avanzi di lamiera.Per lui lo scarto era motivo di creazione, nel residuo stanava la costola di Adamo.Tirava fuori la sua donna,se la stringeva al petto nel passaggio finale di un montaggio a catena.Dove gli altri inciampavano nella fatica, lui liberava un passo di walzer.Perdeva musica dalla suola, viola e tromba dal rattoppo, felice di una lamiera fatta dama e ballerina.

Rientrava al suo cortile, la sera.Una nervatura di foglie secche sopra il viso, la giornata gli consumava la stagione.In casa Gino era uno strapazzo di colori, autunno sfinito dalla raffica del primo turno, dalla corrente dell'ultima sirena.Quel suono gli facevo il callo nella testa, era durone attecchito al pensiero, spiccato al calcagno della coscienza.Ogni metro da ragionare si faceva fitta dentro la scarpa.

Così Gino arrestava il tragitto, piantava in terra le parole, smetteva la voce per riposare il piede.
Zitto dentro la poltrona, versava vino nel bicchiere.Lasciava al Barbera l'onere del cammino.E questo gli sgambettava in gola, gli crollava in pancia con lo scatto del centometrista.
Il Barbera oltre la linea del traguardo, Gino inchiodato alla partenza.Nella misura di questa distanza, passavano i giorni.

Ogni tanto la vita ficcava il nastro tra le ore.Lo faceva col guizzo del pesce dentro la rete, un'invadenza da benedire a remo incrociato.Sbatteva la coda in faccia a Gino, gli scuoteva addosso le sue branchie. Sventagliava luce e scaglie, quella vita emersa dal fondale.E lui se la pigliava tra i denti, col desiderio di cambiare sapore, di variare movimento.Dalla sberla dell’alcol alla carezza del mare.
E con il sale sopra la pelle e l’onda viva nella bocca, Gino trovava approdo nella rimessa del suo cortile.

Uno spazio  pieno di mensole, chiodi piantati al muro senza niente appeso sopra.Chiodi compagni di un’intonaco malandato, messi su per consolazione di crepe solitarie.
C’era una vasca zeppa di pennelli e barattoli di vernice, colori in attesa di essere dati, impazienti di compiere la volontà di una superficie.
Gino stava piegato sulle ginocchia, mescolava il bianco all’ocra scuro, girava piano e poi sbatteva. Tirava fuori l’occhio di bue dell’uovo saltato in padella.Imboccava di colore quattro assi prese a caso, poi divideva le porzioni per sfamare le pareti.Lo faceva a colpi di pennello, nell’andata e ritorno di un braccio sempre pronto al viaggio.
Lui era felice tra le sue mura, uomo di sbronze spente in gola, tornavo sobrio in una tinta accesa.
Si sentiva utile al cemento, necessario alla sua cura.

Dal soffitto della rimessa pendeva un cartello tutto sghembo.
Una scritta verniciata in rosso era monito per chiunque entrasse.”Ogni cosa al suo posto”.
Perchè Gino voleva bene al suo garage, pretendeva che gli altri portassero rispetto ai metri quadri della sua salvezza.Al perimetro che lo faceva durare.Da uomo libero e redento.
Taniche semivuote, macchie schizzate a terra, la trielina sopra uno straccio, la crosta scura del pennello.Tutto pareva avere residenza, tetto assegnato per merito e tenacia.Ogni cosa si era guadagnata un posto lì dentro.Insediamento da preservare e mantenere.
Di questo si preoccupava Gino.
Di difendere il valore delle cose.
Cose piccole, minute, rattrappite e sante.
Sconosciute al profitto, che a rivenderle non torna il soldo sfondato.
Cose abili a rimuovere la logica del mercato, la regola dell’imbroglio, per applicare la legge dello scambio gratuito, di un’offerta integra e totale.Nei confronti di un uomo che in queste trovava motivo di riscatto e ragione d’amore.
Gino prese parte alla seconda guerra mondiale, arruolato come aiuto cuoco a bordo di una nave.

Mai parlò della scarica di una mitraglia, o di un ferito caduto al suolo.Cacciò tutto sotto la botola della memoria.Ci restò sopra con i piedi, a fare chiusa sul coperchio.Un passo oltre gli sarebbe costato la mina del dolore.Esplosa nel ricordo, scoppiata addosso al cuore.
Forse il giro delle sue braccia, la mescola del suo colore, era addio alla guerra.Nel per sempre di un attimo.Nella tregua di una rimessa.Al disarmo delle ore.
Gino arrivato al settantacinquesimo compleanno.Lo rivedo col vento nelle guance, il soffio spinto sulle candeline.Al collo il bavaglio di un bambino.
Tiene latte nel bicchiere, la poppata dentro il vetro.Ci sta il verso di chi è appena nato, a rimpiazzo del Barbera. Un sonoro da succhiotto, sopra il chiasso del litro in gola.
Gino colpito da ictus.
Paralisi della parola.
Lui sempre zitto, ora vorrebbe parlare.
Infermità alle gambe.
Lui sempre in movimento.Ora costretto a restare.
Però negli occhi la vita gira, gli volteggia lungo il corpo, è capriola fino al piede.Sarà per via del walzer con la dama di latta.Per la musica che ancora esce dalla suola, o la viola che ancora scappa dal rattoppo.

Sarà perché il braccio destro Gino lo muove.E il suo pennello se ne sta lì.Salvo tra le dita.A dipingere un sole giallo sopra il foglio a quadri.
Il muro ha ridotto il suo spessore, l’intonaco ha cambiato di sostanza.Ma Gino continua.Anche nel millimetro, pure con la carta.Davanti al domicilio nuovo di un colore, passato dal barattolo al tubetto.
Gino comincia e ricomincia, l’interruzione non è il suo affare.
Ogni tanto prova a dire.Rischia la prima sillaba del suo nome.Tenta di nascere dalla sua iniziale.
”Gi”….”Gi”, una balbuzie analcolica, effervescente di coraggio, senza il gas della paura.
Mangia la sua fetta di torta.In una mano il cucchiaio, nell’altra il pennello.
E oggi non è più l’uomo che cercava un acquario di stelle dentro al fiasco di vino.Gino al cielo ci sta in mezzo. E’ punto fisso dello zodiaco.Ha trovato le coordinate del suo destino.
Posso vederlo, la notte.Mi basta girare lo sguardo su. In alto.

mercoledì 17 agosto 2011

LENA

Ho un affondo dentro gli occhi.L'intera flotta di luce colpita dal cannone solitario di una mattina lontana.Accadde quindici anni fa.Avevo venticinque anni e la voglia di rubare tutte le facce del mondo.Volevo stampare popoli interi su carta baritata, appendere sudari di corpi sconosciuti alle pareti, salutare appena sveglio la mia collezione di Cristi tolti all'anagrafe del cielo.Cercavo figli dalle croci nascoste, quelli scartati dalla briscola di Dio.Tipo il barbone che scambia la cenere di una Marlboro per incenso di chiesa, e si fuma a morte la sua salvezza. Oppure lo svitato da metropolitana, quello fissato al chiodo di una canzone da piaga fissa nella gola.
Giravo per le strade di Milano, il passo spudorato di chi vuole cacciarsi nelle case degli altri senza invito.A capofitto d'occhi entravo nelle stanze dei volti, toccavo le finestre degli sguardi con  dita sporche di sogni.Lasciavo impronte tra i battiti delle palpebre, ad ogni scatto di Laika rendevo eterna la mia manata.La camera oscura mi sviluppava i palmi.Guardavo i negativi e selezionavo le righe della sorte.
Il ritratto di Lena fu il mio segno migliore.
Una linea dell'amore in quadricromia.


Ti chiamavo Briciola, eri la promessa del mio pane quotidiano.Neanche un grammo di farina e già con te stavo sazio.
Suoni un flauto di plastica, con le dita tamponi l'emorragia del suono che scappa dai buchi.Hai talento per la cura, usi le note come punti di sutura e la cicatrice finisce in musica.Te ne stai seduta sul piazzale della stazione, i piedi chiusi nel cuoio, sandali aperti e alluci al cielo, perchè dall’alto cascano i grattacapi degli angeli e tu ne acchiappi le strofe.Il ritmo dei guai celesti ti scende nel tallone, batti pianto d’ala rotta sul selciato.


Briciola, dammi tre quarti del tuo viso. La porzione rimasta offrila al sole, che da sazio gli s’allarga il cuore e mi butta in terra l’ombra giusta.
Io ti chiedo di piegare la testa e tu ruoti gli occhi a giro di giostra.Poi smetti la musica e mi attacchi addosso la parola, la tua voce è fiaba adesiva.
Ti guardo illustrato, i sette nani sopra le braccia e Biancaneve stampata in petto.
Parli come una bambina, dieci anni sulla lingua e quasi venti cacciati in tasca. Chiusi assieme al centesimo della moneta, alla promessa di un panino.Fuori di bocca soltanto l’infanzia, gli altri domani in pasto ai calzoni.Perchè l’innocenza merita aria, l’ora libera in mezzo al cortile.I pensieri adulti se ne stiano in cella, e vadano pure a farsi isolare.
Un po’ più a destra, Briciola, dove il rasoio del sole sbarba l’ombra.Perfetto, non ti muovere. Io scatto e tu parli.

Lo so cosa tieni attaccato al collo, quella scatola nera è come il forziere che sta in fondo al mare.Il bauletto che incanta il pirata, quello ti tieni al collo.Vuoi difendere il tuo tesoro dall’attacco del vascello.Dimmi, com’è stato scendere tanto in basso? Pesava tanto il mare sopra la testa?Lo so che non è stato facile, convincere il corallo a levarsi dalla sua poltrona di alghe e la stella marina a lasciare il suo materasso di conchiglie.Del resto, io li posso capire.Là sotto non vedono il cielo, possono soltanto dormire e provare a cercarlo, dentro al sogno intendo dire.Provarci così, a cercare il cielo.Hai avuto coraggio, un leone dentro il cuore che ti ha spinto giù, a tante miglia d’acqua dalla terra.Così tanto in fondo, fino al sonno dei pesci e allo sbadiglio del forziere.Perchè lui, il tuo tesoro intendo dire, lui si è svegliato subito quando ti ha visto.E poi ti si è messo al collo per risalire, come il bambino che si attacca al seno della mamma per crescere.Succhia latte e sale su, aumenta di statura e diventa grande, sì. Alto più del sole, sedici anni  e la spalla già supera il cielo.La scatola nera che porti al collo è il tuo bambino, io lo so.Però non uno uguale a tutti gli altri, lui il latte non lo vuole.E’ ghiotto di volti,la sua poppata è fatta di sguardi.Io lo so che il tuo bambino mangia gli occhi della gente.

Parlò così Lena, quella briciola di donna che mi si conficcò tra i denti nel mezzo dei miei vent’anni.Provai a rimuoverla più volte, impugnai lo stecco di altri amori e fregai forte sotto il molare.Ma Lena mi restò in bocca, lei non se ne volle andare. Briciola contro la lingua a ricordare una fame eterna.
Aveva ragione, la mia Laika era forziere rubato al mare, figlio al collo che mangia occhi. E io vivevo da uomo criminale, un padre che insegna al figlio il mestiere di rubare.Briciola me lo fece capire, con il libro della sua favola scaraventato contro la mia ambizione.Vangelo troppo pesante da reggere, per un leggio che volta le spalle all’altare.

Più volte mi domandai se Briciola non fosse caduta dalla tavola del Signore, dall’avanzo del suo morso alla supplica della mia fame.
Perchè pure con tutti quei chili d’occhi ingoiati, io mi sono sempre sentito la pancia vuota e lo stomaco cieco. Vedevo fame, sempre e soltanto una fame nera.Ovunque preso a scattare foto, dentro la furia d’ingoiare volti, non mi accorgevo nemmeno che differenza di sapore ci fosse, tra il colore diverso di due sguardi.Celeste o marrone per me faceva lo stesso, mandavo giù l’indistinto.Una pappa che frullava tutto e salvava il nulla.

Il nulla, unico superstite rimasto in pancia.
Scappato dal ventre per solitudine.Venuto agli occhi per essere visto.
Me lo trovai sotto le palpebre, arrivò di mattina.Carico di fame nera, mi uccise gli occhi.Un solo morso e fece fuori tutta la luce.
Collasso alla retina.Cecità irreversibile.
Da quel giorno smisi con i furti e le abbuffate.Calai di peso ma non cambiai di taglia.Scelsi di tenere gli stessi abiti.Con una misura in più addosso, imparai che oltre a me potevano starci pure gli altri.Dentro al girovita del mio calzone.
Basta derubare le facce, oggi non m’interessa più il furtarello degli sguardi e la mangiata illecita.Mi sfamo con un fianco a fianco che sta alla legge.
Passo i pomeriggi seduto sul piazzale della stazione, in quell’angolo che fu della mia Lena.
Attendo che qualcuno si offra  volontario, faccia avanti gli occhi e mi metta sul piatto il viso.Allora io mi ci accosto, piano.E lo assaggio con le dita.
Una Briciola alla volta, ne traduco il gusto in suono.

MARINELLA

Marinella, il suo nome sta dentro una celebre canzone di Fabrizio De Andrè.La vidi appoggiata al muro della cascina in cui viveva.In piedi, scivolata in un fiume senza nome, ma ancora capace di reggersi in verticale, tenuta alla terra per le estremità dei piedi.Calzava sandali di cuoio, il tallone nudo e un pollice in affaccio.
Era autunno, pioveva un umido che da lì a breve si sarebbe fatto freddo da cappotto.Fatto curioso, allacciare il passo dentro l'estate.Restare indietro di una stagione solo nella parte bassa del corpo.Una gonna corta, le gambe scoperte, quasi niente ai piedi.E sopra invece la copriva il vantaggio di un dolcevita, la rincorsa di una giaccavento.Dai fianchi in su Marinella si buttava in avanti, anticipava l'inverno.Già preparata allo scambio tra il vecchio e il nuovo tempo.

Capitai nel suo paese con i miei nonni, cercavamo una casa in affitto per l'intero anno, dove passare festività e vacanze.Voldomino, una piccola provincia sulle alture di Luino.Luogo dove la pietra vinceva sul cemento, gli anziani tiravano la carta buona col sorso di vino giusto.E i ragazzini spendevano il tempo a giro di pedali e corse giù al torrente.Fu facile stringere amicizia presto, imparare il filo rosso che univa tutti quanti i nomi.E scegliere proprio quell'appartamento al secondo piano, nello stesso cortile di Marinella.

Era bello guardarla, la mattina.Io affacciata al balcone, appena uscita dal sonno.Lei segnata in faccia dalla cicatrice di chi non chiude occhio e si sfascia i muscoli della faccia, nello sforzo di calare le palpebre.Accendeva sigarette anzichè parlare, il suo dire di giorno era risucchio di tabacco tra le labbra.Poppata solitaria alla ricerca di una goccia di latte, di un residuo di madre, nel bacio secco della nicotina.La sua era voce notturna, guaito strisciato contro la buccia d'arancia dell'intonaco bianco, urlo strofinato ai muri, screpolato fino all'osso nel tentativo di prendere fuoco.Di notte Marinella gridava un canto, voleva accendersi nel buio, essere luce quando tutti spengono le lampadine e staccano la schiarita.Allora lei cominciava la sua resistenza.Apriva la porta di casa, in mano una bottiglia di birra puntata al cielo, lancia pronta a infilzare le cosce degli angeli, ad arrostirne la presunta grazia.Piume colorate attorno al collo, danzava la volontà di un cigno selvaggio, il suo diritto a sollevare il collo fino al ballatoio delle bestie addomesticate.Si guadagnava il centro del cortile, da abusiva otteneva domicilio di un tombino.E lì prendeva a danzare una bellezza furiosa e disperata.Il corpo scosso da un sisma ripetuto e breve, sonaglio di serpente dentro le anche, incantava gli umori della notte, il sudore della luna.Senza mai uscire dal contorno del suo tombino, nella reclusione di una ruggine quadrata, Marinella toccava la libertà.All'ora tardissima del sonno sodo, lei ci spaccava i gusci per morderci i sogni.Noi tutti uscivamo a vedere.Finestre, balconi.Di colpo nelle case affacciate al cortile spiccava il giorno.Col sole illecito di Marinella.

Ma alla gente non piaceva spartire la propria razione di sogni. Nessuno disposto ad accettare una crepa aperta nel guscio liscio e perfetto del sonno.Tutti parevano gelosi di un piatto da gustare in solitudine.

La fame di una pazza è fatto che non ci riguarda.Sembrava questo il loro pensiero, quando a imposte chiuse, imprecavano contro Marinella la matta, Marinella l'ubriacona, Marinella preghiamo Dio che se la riprenda su nel cielo.E Marinella convinta a terra. Viva e forte nel suo danzare.Dopo in silenzio però, diminuita di gesti, azzerata di voce.Nel rispetto del digiuno imposto.Ma mai stanca di aspettare il boccone, il tozzo fumante di qualche sogno.

Spiavo di nascosto la sua speranza, da dietro le persiane della camera.La vedevo continuare.Muovere l'ombra di una danza, sopra l'occhio spalancato della fogna.L'unico che restava aperto.Il solo che restava a guardare.

Gli adulti non volevano che noi bambini ci fermassimo a parlare con lei.Se ce la fossimo trovata davanti, bisognava fare il giro largo, segnare arco teso a terra. Veniva così impartita la prima nozione di guerra.Individuare il nemico e disporsi all'attacco.
Pronti a scagliare la freccia.Senza capire il perchè del nemico nè il motivo dell'attacco.
Quando Marinella capitava accanto a noi, o noi accanto a lei, suo primo pensiero era correre in casa, prendere la ciotola di caramelle e invitarci a scegliere quella che più ci andava.Oppure tutte.Tutte quante le caramelle assieme.A lei non importava restare con un vuoto in mano.A reggere quello ci avrebbe pensato lo spessore dei calli.Il durone dell'abitudine.Le bastava stare con noi.Esserci.Compresa e inclusa nel diritto di esistere.Anche da matta, anche da ubriaca.Anche da tutto ciò che sta prima, nel mezzo e dopo le due categorie.

Esserci da Marinella, insomma.Tutto qua.Questo le sarebbe bastato.Nemmeno pretendeva di morderli i nostri sogni.In quegli attimi l'avrebbe saziata uno stare ferma.Un passo da noi.A contemplare il miracolo della sua mentina sciolta sotto le nostre lingue.Considerare nemico una donna così, è atto che di vergogna abbonda. Marcare ai suoi piedi un segno di guerra, è atto che nella vergogna affonda.E io ancora oggi trattengo il fiato per non affogarci dentro, quando ripenso ai miei rifiuti di bambina obbediente.Davanti alle mentine di Marinella.Che ora forse starà danzando, dentro la sua storia vera.Sopra un cielo che mi auguro sia più grande e accogliente di un tombino.

CONSOLATA

Troppo rumore.  Spegnete quella radio. Sono seviziata dagli strilli. Accompagna tua sorella in bagno. Senti quanto urla. Fàlla smettere. Non lo so come. Prendi il succhiotto e ficcaglielo in bocca. Mi seviziano, tutti i giorni. A frustate mi pigliano. Ho le piaghe del martire fin dentro le ossa. Fratture al sistema nervoso. Slogature alla coscienza. Croste alla pazienza. Dico io, ma ci si può ridurre  così? Guardatemi, i capelli stinti, secchi come paglia, che scoppia un incendio pure se gli getti sopra un cerino spento, la pelle screpolata che non ne posso più di darmi la crema, tanto non serve a niente, il grasso di foca ci vuole, il sudore di balena, perché mi tornino morbide, lisce come il pavimento dopo la cera. Allora, ancora lì a tirare lo sciacquone siete? E' la terza volta che questo scroscio d'acqua mi travolge le meningi, mi trema il pensiero, mi sculetta la testa... Colpa del fracasso, del rumore maledetto. Di voi due mocciosi, che se non uscite da quel bagno, subito adesso, vi spedisco a letto con la buonanotte del Diavolo anziché quella del buon Dio.

Sì, lo so, dovrei farmi le unghie, saranno dieci anni che non ci passo il graffio di una lima, il lusso di uno smalto. E pensare che l'altro giorno al mercato ce n'erano di tanto carini. Blu, viola, rossi coi lustrini, e mi sarei fermata, Madonna della Concessione, se avessi avuto il permesso di tardare qualche istante, di fregarmene del ferro da stiro, dell'asse da sudore, della pila di camicie, maglioni, calze e calzoni. Ma poi chi la sente quella pazza screanzata, che gira nuda per la casa con patacche d'oro addosso, mentre la bestia da soma qua presente si strizza il fiato nel grembiule e strofina fatica addosso a una piastra rovente? Che quella mica ci sente, se il tram non è passato, se Andrea si è ammalato o è capitato il traffico bloccato dal corteo dei manifestanti. No, lei di ragioni non ne sente. Ogni giorno, mi tocca di essere puntuale, alle otto di mattina, Signorsì, presente! E quella volta che prese a nevicare, e il ghiaccio si mise in testa di strapparmi una caduta da sotto i piedi? Mi alzai tutta sola, senza lo straccio di una mano, con la caviglia gonfia da parere un melone, e tutta sola zoppicai fino a casa di quella pazza rotta in cuore. Alle otto e quindici arrivai. Signorsì, presente, un quarto d'oro di ritardo ma mai assente. Brutta baldracca, che Dio mi perdoni, quel giorno mi abbassò la tariffa. Due euro in meno all’ora e una caviglia doppia guadagnai, bella consolazione! Madonna della Giustizia, ma che facevi allora? Tenevi la bilancia rotta? Un divorzio di pesi e di misure? 

Mi seviziano. Sono la cavia dei loro capricci. Manca solo una gabbia con la ruota dentro e poi incomincio a girare, che magari così è meglio.Girare attorno, sempre uguale, senza la briga di una partenza, l'ansia di un arrivo. Girare tanto da smarrire il giro, da credere di andare in linea retta, sulla strada dritta, dove non c'è salita che t'ammazza il fiato né curva a illuderti che se la superi, dopo, qualcosa sarà diverso, qualcosa sarà cambiato.
Via di qua, che la mamma è spenta, c'ha l'interruttore girato, non può ascoltare, non ha corrente per parlare. E spegnete quella radio! Fracasso, balordo cocciuto fracasso, che spende rumore, che c'ha le mani bucate e se ne frega se io ho le tasche vuote, e un conto corrente che pure lui strilla, mi sevizia e piange miseria. Sant'Antonio dei poveri disperati! Non che ti venga in mente di addolcirmi il risveglio, che ne so, magari una mattina di primavera, quando canta il canarino, e farmi trovare un biglietto della lotteria sotto il cuscino? Che sia vincente, si capisce, altrimenti puoi tornartene al creatore e scordarti che esisto. Perchè va bene il danno, la spina della malasorte, ma pure il chiodo della beffa no, quello se lo tenga pure Gesù Cristo dentro i palmi. Che Dio mi perdoni, e pensare che prima di tirarmi un velo bianco appresso all'altare, avevo il sogno di diventare un'estetista, e dormivo con il volantino che ne pubblicizzava il corso lì, bello piegato sul mio comodino. Avrei disegnato sopracciglia da far gonfiare il petto agli occhi,  fatto unghie che se le vedevi pregavi il graffio addosso, massaggiato schiene da ubriacare la spina dorsale con tutte le vertebre assieme. Invece mi ritrovai con la sorpresa di un marito ubriaco, aveva ancora il sonno negli occhi quando la mattina usciva  di casa col desiderio del prosecco o del caffè corretto. A zonzo tutto il giorno se ne andava, sbatteva la tristezza addosso ai bicchieri, con la speranza di trovare un mezzo sorriso attaccato al fondo che la buttasse via, quella sua tristezza, quella sua ingrata compagnia. Madonna delle compassioni, neppure la pietà di un bacio sobrio la prima notte di nozze, ho potuto trovare. Hai voglia di sperare nel sogno di rifare mani piedi e benedire il volantino che dal comodino finì presto nel bidone dell’immondizia, hai forza di credere in qualcosa di meglio che non fosse la preghiera di tirare presto sera. Come se non bastasse il peso da portarmi sulla schiena, si aggiunse pure quello dentro la pancia, due mesi dopo la promessa davanti all’altare, rimasi incinta e arrivò Andrea, Bontà del Signore, un figlio è sempre una benedizione, ma quando non tieni i soldi nemmeno per comprarti l’acqua santa, dove la trovi la spinta di farti il segno della croce di fronte a una creatura? All’arrivo di Sara, poi,  faticai anche a credere nella fede buona del Paradiso, quasi sembrava che la mia pancia fosse il ripostiglio di chissà quale castigo divino. Ma dico io, non poteva venirvi in mente l’idea di un deposito più grande lassù, dove dare vitto e alloggio a tutte 'ste anime in esubero? Comodo spedirle quaggiù, nude, sperdute, indifese, senza niente tranne il fastidio di uno strillo, senza un vitalizio che garantisca almeno un pezzo di pane e un riparo sopra la testa. Noi dobbiamo pensarci, con i soldi che non abbiamo, a comprare latte, pappe e pannolini. Anche i sonagli adesso, ma non siete troppo cresciuti per quei giochi da neonati? Rumore, che scuote, martella, a percosse in cuore mi piglia, se respiro sento dolore, prendo aria e perdo ragione, mi sale l’ematoma su nel naso, mi sbatte il pugno contro il polmone. Sono vent’anni che sgobbo, che pulisco pavimenti con il marmo rosa, che mi verrebbe la tentazione di sollevare una mattonella tanto che vale ed è preziosa, e scappare via, in un estero lontano, con la mia mattonella sottobraccio, da vendere sottobanco a qualche capo cantiere, e tirarmi su il gruzzolo di un’altra vita, mica nel lusso s’intende, è sufficiente lo spazio di un monolocale, magari la cortesia di un balconcino, se poi ci fosse anche l’affaccio sul mare…Sì, non sarebbe male.

Madonna delle consolazioni, qua niente si decide a succedere, tutto si convince a restare, ben piantato nell’indecenza, fino alle ginocchia nella noncuranza, di nuovo càpita solo una sbronza in ritardo, il marito che giura astinenza per la durata di una mattina, e poi il pomeriggio si svuota il fiasco della promessa, in un solo colpo, tutto d’un fiato. Oppure è la volta dei reumatismi, che non contenti delle mani, adesso si sono presi pure i polsi, arrivano senza bussare, da ospiti educati male, con la pretesa di una buona accoglienza. E intanto sento le fitte dell’inferno, qui, dove c’è l’ingorgo delle vene e un bianco di neve sulla pelle. Lèvati quelle scarpe, Sara, che ti entra il diavolo dentro i piedi!Guarda che cadi sopra quei tacchi, vedi di rompermi l’unico paio della festa, che poi stai fresca, Saaara! Rumore, maledetto, dannato, rimbomba, pesta, batte con la furia della grandine, e squittisce, sì, fa il richiamo del topo, mi entra nella tubatura del cervello, intasa, strozza strozza da impazzire… E poi i pensieri, che mi saltano da una sponda all’altra della testa, come ranocchi disperati, e qualcuno salta dentro lo stagno delle ansie, e aumenta, gonfio e grasso a dismisura, che prima o poi mi esplode nel petto… Il mio petto, prima di allattare i figli tenevo una meraviglia di seni, generosi e sodi, da spenderci sopra i sogni più belli, vedeste gli uomini come ci gettavano gli occhi, parevano monetine tirate dentro il pozzo, con appresso il desiderio del mio corpo messo nel letto… I miei seni… anche loro ho dovuto lasciare, stornare dal conto già magro delle cose buone, sì perché tra il succhiare dei figli e lo sgobbare per la pagnotta, mi sono scesi di forza, calati di piacere, me li ritrovo così stanchi che per reggerne la volontà sono costretta a portare l’imbottitura con le stecche. E quel porco, Dio me lo conceda, quel suino di mio marito, che non gli basta rotolare nel fango della grappa, nello sterco del vino, lui che fa? Va a caccia di mammelle fresche, di carne giovane da strapazzarsi addosso, nella coscienza neanche il segno di uno scrupolo, il talento di un ritegno… a pensarmi qui, fiacca da fare pena, ogni giorno più vecchia, che mi pare di compiere più anni che respiri.

Ma stasera vi sistemo tutti, stasera vi arrangiate la cena con la fantasia vostra, anche se è Domenica, anche se per tutta la settimana vi siete arrotolati la lingua dentro al pensiero del mio timballo di melanzane, stasera vi tocca usare l’invenzione per saziare la pancia. Sì, perché io mi nascondo le mani dentro le maniche del maglione, e di far andare le braccia davanti ai fornelli non ci penso proprio. E mentre voi sarete lì,  a rovistare nel frigo in cerca di qualcosa che faccia da rimedio all’asciutto delle bocche, io me ne andrò in bagno, metterò i bigodini ai capelli, un po’ di rosso alle labbra, un tocco di vita alle guance e griderò allo specchio il mio diritto di esistere. Sant’Antonio dei martiri, sono stufa di starmene sempre una spanna sotto la vita, che va bene non essere una spilungona, non competere con quelli che arrivano all’ultimo ripiano dell’armadio senza l’appoggio di uno sgabello, ma un metro e sessanta di altezza sarà pure sufficiente a toccare, se non i fianchi, almeno le ginocchia di 'sta esistenza… o no? E senti, senti questo stridere di diavolo che si rade la faccia, questo ragliare d’asino che mi sfonda le orecchie… Sevizia di timpano, fracasso di ragione, che mi verrebbe la fame di una sordità,ma non di passaggio, che sia permanente, che si meriti la pensione dell’invalidità, così è la volta buona che posso campare con la decenza di un sorriso a fine mese, con un cerchio rosso sul calendario che non sia il girone di un’uscita ma il buco di un’entrata! Andrea, sei tu? Sei tu che continui con questo strazio del gesso sulla lavagna? Ma se ti piace tanto disegnare, usa la maledetta pace di una matita, demonio che sei… Demonio d’una creatura, moccioso buono alla follia… Che Dio mi assolva, mi perdoni e mi comprenda, ma qui mi seviziano, e si divertono a ogni nuova piaga che mi cresce addosso. Ma io non aspetto la sera, io ci vado subito dentro il bagno, a cercare il fiato della giovinezza, il soffio di un sollievo, e poi mi metto l’abito delle occasioni, quello con l’orgoglio del pizzo e del velluto, che la sarta quasi piangeva quando me l’ha venduto. E così rifatta prendo la strada, mi concedo la grazia di una libera uscita, tanto bella che il marciapiede dovrà scrollarsi di dosso carte e mozziconi per rendere omaggio ai miei piedi. E mio marito, al suo ritorno, troverà il saluto di un tavolo vuoto, il benvenuto di un digiuno assicurato, l’assalto di lacrime delle due creature, lacrime buone da riempire la pentola e farci il brodo, se sarà tanto affamato… Ecco, si fa presto, due bigodini e sulla testa c’è già il prestigio, un po’ di rossetto e alle labbra torna l’onore, manca solo il vestito. Ci entro piano, così, un po’ alla volta, come si fa nel mare… prima i piedi, l’assaggio delle punte, poi l’azzardo delle caviglie, e dai polpacci in su è tutto un crescere di confidenza, perché occorre abituarsi, alla temperatura della libertà…Madonna dei miracoli, guarda qua… potrei fare non dico la protagonista ma di certo una comparsa in quella telenovela che danno col rintocco del mezzogiorno, che tra l’acqua che bolle, il sugo che cuoce e Sara che strilla, ogni tanto riesco anche a capirci qualcosa della storia… E quella strilla, ancora e sempre m’abbaglia il giudizio, mi straccia la ragione, che nella testa tengo una discarica di crucci… Rumore, fracasso, sevizia… Scuote, batte, picchia… trema di tempie, scrolla di nervi, graffia di cuore… Devo uscire, il corridoio, la porta…ma perché già qui? Perché  subito, davanti… E dov’è la maniglia…perché l’avete tolta… e cos’è tutto questo ferro che sale e che scende e che sbarra… e poi i passi, tanti passi, col rimbombo, col tuono, lo sparo… cos’è quella pistola attaccata alla cinghia, e le chiavi, quante chiavi, sbattono, picchia, scuote, trema… Rumore, sevizia… Ma cos’avete fatto… razza di rotti nell’anima… Che Dio mi perdoni. Anzi, no, gli levo l’imbroglio al Signore, faccio da sola, Io mi assolvo dai miei peccati, nel nome della libertà, della giustizia e della ragione. E adesso fatemi uscire, per l’amor dell’Inferno, fatemi andare.